Hallelujah di Leonard Cohen; cosa nasconde? Lo svela il documentario “Hallelujah, a Journey, a song”

di Roberto Zadik

Sicuramente la canzone Hallelujah del 1984 è stata la consacrazione artistica del leggendario cantautore ebreo canadese Leonard Cohen. Il suo brano più ascoltato e apprezzato è stato riproposto, in centinaia di “cover”,  da una marea di popstar di primo piano, dal tormentato e fascinoso Jeff Buckley, a Rufus Wainwright, star connazionale di Cohen, all’israeliana Ninet Tayeb, fino al leggendario Bob Dylan. Quest’ultimo la eseguì in un suo concerto del 1988 a Montreal, città in cui Cohen nacque il 21 settembre 1934 da famiglia polacco-lituana.
Come è nata e quali sono i segreti e le curiosità di questa suggestiva ballata dal ritmo gospel, cantata con la consueta espressività dallo schivo e ipersensibile Cohen? A narrare la complessa gestazione di questo capolavoro, così intensamente ebraico e denso di riferimenti biblici, dal Re Davide e la sua arpa a Sansone, il nuovo documentario Hallelujah. Leonard Cohen, a  Journey, a  song che, secondo un interessante articolo uscito venerdì 1 luglio sul sito Jewish Telegraphic Agency e firmato dal giornalista Andrew Lapin, sarà ricco di curiosità e sorprese.
Soffermandosi sulle abilità poetiche e testuali di Cohen e sull’ebraicità di melodie come Who By Fire ed il suo testamento spirituale You want it darker, un brano estremamente cupo scritto poco prima della sua morte avvenuta a 82  il 7 novembre 2016, l’articolo del JTA sottolinea come il brano Hallelujah sia stato suonato dappertutto, dai matrimoni ai funerali, oggetto di interpretazioni e ragionamenti da parte dei critici musicali e della stampa internazionale come pochi altri testi.
Infatti, anche il documentario si addentra non solo nel rapporto fra la canzone e il suo autore ma fra essa e l’ebraismo  in generale. Per questo motivo, nell’intento di indagare e approfondire questo brano, i registi del documentario Daniel Geller e Dayna Goldfine hanno intervistato gli amici più stretti di Cohen, i suoi collaboratori e perfino le sue ex partner, come la sua “musa” norvegese Marianne Ihlen che ebbe con lui una relazione, quando si incontrarono sull’isola greca di Hydra, diventando protagonista di una delle sue migliori canzoni, la struggente So long Marianne. Diretto con meticolosità e intensità il documentario racconta del “prima” e del “dopo” Hallelujah, del contesto in cui venne composta, come brano della maturità artistica di Cohen, quando egli aveva compiuto da poco cinquant’anni. Esso svela anche interessanti aneddoti sulla sua vita ebraica, su quando frequentava la sinagoga di Montreal e sul rapporto profondo con la sua storica compagna, Suzanne Elrod, che divenne madre dei suoi due figli Adam e Lorca.
Fra le tante tematiche del documentario, le tante crisi e momenti difficili vissuti dal cantautore, come quando la casa discografica Columbia Records rifiutò di far uscire negli Stati Uniti l’album Various positions in cui era contenuta Hallelujah. E così il brano, sprofondato nell’oblio,  venne riscoperto da Bob Dylan e da John Cale alla fine degli anni ’80 ed esplose, come successo senza precedenti, a metà degli anni ’90 con il rifacimento di Jeff Buckley, mentre Cohen profondamente scoraggiato dalla musica si era rifugiato come monaco buddista in un monastero Zen in cui i suoi nuovi amici lo chiamavano “Jikan”, che in giapponese significa, il silenzioso. Il documentario analizza così non solo la canzone ma vari aspetti della complessa personalità del cantautore e la sua influenza artistica e culturale, a livello internazionale, evidenziando come la sua rinascita cominciò proprio da questo splendido brano.