Ebraismo nel Mondo. L’età dell’oro

di Ilaria Myr

Un buffet ricco e abbondante, da cui piluccare qui e là, scegliendo quello che più ti piace. Oppure un menù a prezzo fisso, dove prendi solo il “pacchetto” prestabilito. O ancora un ristorante à la carte, dove puoi scegliere con agio e ampiezza, ma sempre all’interno di un’opzione preindicata. A quali di queste tre immagini somiglia il vostro modo di vivere l’ebraismo? In che direzione va il molteplice e variegato universo ebraico e quanti modi ci sono di vivere la propria identità? Domande millenarie. E non bastano certo tre metafore per tentare una risposta. Judaism, jewry, jewishness… L’inglese è più sfaccettato dell’italiano ma grosso modo i tre vocaboli corrispondono a ebraismo, ebreitudine, ebraicità. Tre categorie, tre diversi modi di declinare se stessi in questa specie di “supermercato dell’identità” che sembra essere diventata la nostra contemporaneità ebraica. Ma quali sono i nuovi equilibri che si profilano? Che strada prenderà l’ebraismo del futuro, sul letto di Procuste delle differenti spinte identitarie, tra sirene di assimilazione e il ritorno a una fede corrusca e perentoria? Queste e altre sono alcune delle domande che si pone The Economist, il prestigioso settimanale britannico, che ha dedicato all’argomento un poderoso dossier di sette articoli, intitolato “Alive and well. Vivo e vegeto”. Un’analisi attenta e approfondita, di alto livello qualitativo, -sotto certi aspetti troppo critica nei confronti dell’atteggiamento della diaspora verso Israele-, che ha il merito di accendere i riflettori su quest’ampio mondo che è l’ebraismo moderno, dentro e fuori Israele.

Usa: una nuova ebraicità

L’inchiesta di The Economist prende il via da una considerazione positiva e confortante: l’ebraismo sta rifiorendo, anzi sta attraversando una vera e propria età dell’oro, sia in Israele che nella diaspora. Nonostante guerre e problemi, la popolazione dello Stato ebraico si è posizionata -nella classifica internazionale stilata in un report dell’ONU-, al 14° posto fra quelle più felici al mondo, prima ancora dei francesi e degli inglesi. E nella diaspora la vita ebraica non è mai stata così libera e prospera. Da tempo negli States essere ebreo è diventato cool. Un’attrice come Gwyneth Paltrow -il padre è nipote di un rabbino, la madre è protestante-, scrive in un blog la sua ricetta kasher preferita per il Seder di Pesach, ricorrenza questa diventata popolare anche fra i goyim; così come accade per il Bar Mizvà, sempre più un rito sociale fortemente desiderato da tutti i ragazzini americani, ebrei e no.

Anche nelle piccole comunità della diaspora, dice The Economist, gli ebrei stanno rifiorendo. In Russia e Ucraina, dove identità ebraica e  sionismo furono ferocemente repressi dai regimi comunisti, gli ebrei hanno assunto oggi ruoli di primo piano nel business. E la filantropia ebraica sta ricostruendo la vita comunitaria di tutti coloro che hanno deciso di restare e non emigrare in Israele o in Occidente.

Un fervore diffuso, una ricerca di ebreitudine che va nella direzione della riscoperta delle proprie radici, della memoria storica e familiare, dell’approfondimento religioso. In un contesto dove tutto è liquido e in movimento, le vecchie definizioni di ebraismo sono forse diventate obsolete. Laici, religiosi, riformati, conservatori, tradizionalisti, identitari…: tutte definizioni che si sono arricchite di nuove declinazioni e che presentano più sfumature che in passato, sostiene The Economist.

Tutto ciò emerge soprattutto negli Stati Uniti, dove l’ebraismo sta vivendo un’età dell’oro, una “golden age”. Ma dove, parallelamente, sta venendo meno quello che da sempre caratterizza l’ebraismo, e cioè l’affiliazione a specifiche correnti di pensiero; in particolare, fa notare il magazine britannico, a essere fortemente penalizzate sono le due grandi Congregation, quella conservatrice e quella riformata, relativamente liberal, che stanno perdendo colpi a favore degli ortodossi.

Sia i Reform sia i Conservative americani hanno le proprie radici nella Germania del XIX secolo. Storicamente, negli States, il movimento Conservative diventò il ponte attraverso il quale milioni di immigrati passarono dalla tradizionale ortodossia dell’Europa orientale a forme di culto più in linea con la loro nuova patria (tra i Conservative non esiste matroneo, uomini e donne pregano insieme, ed è diffusa la convinzione che la Halachà si debba adattare e debba modificarsi con l’evoluzione dei tempi). I Riformati vanno ben oltre: alcune congregazioni, dice The Economist, addirittura hanno spostato il giorno di riposo dal sabato alla domenica.

Nonostante entrambi i gruppi cerchino di porre un freno all’assottigliarsi delle loro file, colpisce che la risposta degli ebrei americani alla domanda “qual è la tua appartenenza? A quale Congregation fai capo?’, la risposta sia “a nessuna”. Come dire che nell’ebraismo americano sta prevalendo un senso più generico e diffuso del proprio essere ebreo, meno definito e identificato con le varie Congregazioni. «Sta crescendo una specie di sentimento da “cane sciolto”: gli ebrei che non si sentono più né Conservative, né Reform, né Ortodossi. Il vento in America sta soffiando in una direzione sempre più secolare, specie nei Blue States del partito Democratico, dove vive la maggior parte degli ebrei», spiega Steven Cohen professore di Sociologia all’Hebrew Union College.

Alcuni sociologi sostengono che questo fenomeno di non-affiliazione alle Congregazioni sia da attribuire all’aumento dei matrimoni misti. «Il matrimonio misto ha cambiato il volto dell’ebraismo americano», dichiara Leonard Saxe, professore di studi ebraici contemporanei alla Brandeis University, vicino a Boston. Questo punto di vista è supportato anche dalla National Jewish Population 2000-01: l’indagine, commissionata dalle Jewish Federations of North America, rivela che il 43 per cento degli ebrei che non aveva avuto un’educazione ebraica si era poi sposato con un non-ebreo. Ma, allo stesso tempo, è vero anche -riconosce The Economist- che molti di coloro che non si considerano parte di alcun gruppo religioso sono comunque profondamente legati alla propria appartenenza ebraica. Infine, un nuovo tratto che caratterizza l’ebraismo Usa, dice The Economist, è la solidarietà totale, acritica e assoluta verso lo Stato d’Israele. A tal punto da definire il sostegno incondizionato a Israele e il fund raising come la nuova “religione secolare” dell’ebraismo statunitense.

Un seder a Katmandu

Se il ritorno all’identità ebraica è un trend crescente degli States, la cosa vale ancora di più in Europa, dove è in atto un vero e proprio revival fatto di riconquista delle proprie radici. In particolare, ciò avviene fra le popolazioni -come quelle vissute nell’ex URSS-, tra cui per decenni la pratica religiosa era stata bandita. Oggi molti ebrei dell’Est Europa hanno scelto di vivere in Germania, ricreando così una popolazione ebraica dall’impronta comunque molto secolarizzata. Parallelamente, The Economist rileva una crescita dell’ortodossia e dell’universo Haredì-chassidico: una vera e propria esplosione demografica caratterizza infatti il mondo haredì, e si conta che un ebreo su 10, sul totale mondiale, sia Haredì e un 10% sia costituito dagli “ortodossi moderni”.

Dal canto suo, sostiene il magazine, la diaspora, e in particolare l’Europa, sotto la pressione di un rinascente antisemitismo, avrebbe adottato una posizione di “difesa acritica” nei confronti di Israele, riassunta nell’espressione corrente di chi dice «lasciamo agli antisemiti le critiche a Israele, noi dobbiamo sempre difenderlo». Tradizionalmente schierato a sinistra, The Economist stigmatizza e critica questo atteggiamento; le sue posizioni liberal spiegano anche un certo qual numero di strali all’indirizzo dell’attuale politica israeliana, che qui e lì emergono dall’inchiesta.

In questo quadro si inserisce l’intensa e capillare attività del movimento Chabad, che l’Economist non esita a definire una potenza dell’ebraismo contemporaneo, in virtù del suo approccio tollerante e accogliente nei confronti di tutti i tipi di ebrei. Grazie ai Chabad ogni anno a Katmandu, in Nepal, si tiene un Seder di Pesach con oltre 2000 giovani viaggiatori ebrei. Mentre in Cambogia l’anno scorso dodici ebrei hanno celebrato una festa ebraica. Tutto ciò è reso possibile dalla presenza capillare del movimento nel mondo: con oltre 3.200 schlichim (emissari) solo in America, e altri 2000 in tutti gli altri Paesi, i Lubavitch sono presenti ovunque ci siano ebrei che viaggino o vivano, ivi compresi gli angoli più sperduti del pianeta.

Talmud e cheesecake

Ma è soprattutto in Israele che questo fenomeno di riappropriazione delle proprie radici ebraiche si rivela in tutta la sua forza e, com’è tipico in questo Paese, in modo paradossale. L’Economist fa, per esempio, notare che fino a qualche anno fa Shavuot per la maggioranza degli israeliani era solo la festa in cui si mangiavano latticini, specie il cheesecake; solo gli ultra-ortodossi praticavano la tradizionale preghiera notturna, il tikkun e la veglia per il Matan Torà, il dono della Torà sul Sinai. Oggi, invece, la società israeliana ha fatto proprio il principio della veglia notturna in attesa delle Dieci Diciture (i Comandamenti) ma interpreta laicamente questo precetto: propone eventi e attività notturne di vario tipo, proprio per celebrare la solenne festività, da maratone cinematografiche a concerti, a mostre all’aria aperta, a dibattiti religiosi e no. E se anche sembra somigliare più a una “notte bianca” che a un momento di preghiera, rimane il fatto che le iniziative vengono prese in nome di una festa religiosa. Significativo a questo proposito, il resoconto del viaggio nel Peloponneso di un gruppo di studenti dell’Università ebraica di Gerusalemme. Nonostante soltanto una sola studentessa fosse osservante, tutti hanno sentito il dovere di rispettare la kasherut e celebrare la Kabalat Shabbat, in segno di rispetto ma anche di marcatore identitario. La religione, insomma, viene oggi riconosciuta, molto più che nel passato, come parte fondante della cultura ebraica e israeliana, specie se ci si trova a viaggiare fuori dai confini dello Stato ebraico. I dati, del resto, parlano chiaro: un’indagine condotta fra gli ebrei israeliani nel 2009 rivela che il 46% si definisce laico, ma solo il 16% dichiara di non osservare alcuna tradizione. Il 70% dice di mangiare solo cibo kasher, e molti osservano Shabbat. Tutto ciò sta a significare un’erosione della classica dicotomia fra laici e religiosi, in nome invece di uno sviluppo più contemporaneo e pluralistico dell’ebraismo.

Ebraismo a bocconi?

Stiamo quindi davvero parlando di un ebraismo “on demand”, diventato un “buffet” da cui prendere ciò che piace?, si chiede l’autorevole giornale. Il dibattito è in atto ma la logica del pick and choose ha parimenti strenui difensori, così come agguerriti detrattori. «Certo che si tratta di un buffet “prendi, assaggia, scegli”. Che cosa c’è di male in questo?», sostiene Rabbi Lau-Lavie, un rabbino israeliano dall’approccio piuttosto aperto. «La verità è che molta gente è priva dei più elementari strumenti di conoscenza ebraica, non conosce abbastanza le basi dell’ebraismo per poter operare delle scelte consapevoli. In qualità di rav e maestro, il mio primo lavoro sarà quindi quello di fornire un ricco buffet e la possibilità per ciascuno di operare scelte personali in armonia con la propria sensibilità e il proprio vissuto. Soltanto dopo, il passo successivo sarà quello di portare le persone dal ‘voglio fare’ al ‘mi sento in dovere di fare’. Ecco perché forse oggi proliferano, specie negli Usa, corsi di ebraismo di breve durata, così come numerosi programmi di studi ebraici nelle università. Nonostante ciò, resta forte fra i giovani ebrei americani un paradosso culturale: sono tutti straordinariamente preparati, colti e competenti nelle svariate discipline di studio e professionali. Hanno tutti un alto livello di formazione. Ma sono abissalmente ignoranti in cultura ebraica, ignorano la storia, le basi della Halachà, e le varie tradizioni ermeneutiche… Senza contare poi che, per la maggior parte di loro l’educazione ebraica resta legata a infanzia e adolescenza, confinata a poche ore la settimana e finisce a 12-13 anni, dopo il Bar e Bat Mizvà». Una considerazione, questa, che in verità vale forse per qualsiasi altra cultura religiosa oggi in Europa, e non certo solo per gli ebrei.

Insomma, il quadro generale, sottolinea The Economist è quello di un ebraismo in ebollizione, un fermento travolgente che ne fa oggi una realtà più che viva e vegeta. Con una scommessa aperta all’orizzonte: quella di riuscire nella grande riconciliazione tra fede e modernità, tra spinte millenarie e un pianeta in globale e vorticoso cambiamento.

Il caso italiano: un’indagine dell’Ucei

A fronte di questo complesso panorama internazionale, quali sono, se esistono, le specificità del “caso italiano”? In un paese che negli ultimi anni è tanto mutato dal punto di vista culturale e sociale, quali dinamiche hanno coinvolto la piccola minoranza ebraica? Il pericolo maggiore, in questi casi, è quello di lasciarsi andare alle sensazioni incontrollate, alle aspettative personali e alle analisi frettolose. Per questa ragione l’Unione delle Comunità ha promosso un’ampia indagine nazionale, che nei mesi scorsi ha visto circa 100 ricercatori intervistare un campione statisticamente rappresentativo degli iscritti a tutte le Comunità italiane. I temi delle oltre 1400 interviste realizzate sono assolutamente cruciali: le forme e i codici dell’identità ebraica, il senso dell’“essere ebrei” oggi, il problema dell’osservanza religiosa, le aspettative nei confronti delle Comunità, la percezione dell’antisemitismo. L’indagine prevede anche la rilevazione di alcune importanti variabili di tipo demografico, come l’occupazione e la relativa mobilità intergenerazionale, il livello di scolarizzazione e così via. Si tratta insomma di un grande sforzo di auto-conoscenza dell’ebraismo italiano: i dati rilevati sono ora in corso di elaborazione, e una prima stesura del rapporto generale di ricerca è previsto per i prossimi mesi.