Alla ricerca dell’ebraismo di André Aciman

di Michael Soncin

Parla il cantore delle emozioni. «Niente “lucchetto” al mal d’amore. Aver amato senza avere il cuore infranto almeno una volta significa che non hai fatto niente, che non ti sei mai aperto davvero. E allora che cosa rimarrebbe dell’amore?» Un’intervista esclusiva

Una scrittura in grado di far emergere le trasparenze degli animi, toccando le corde più sensibili e segrete dei nostri sentimenti, quel genere di emozioni che molto spesso non abbiamo il coraggio di raccontare nemmeno a noi stessi. Un inchiostro che porta la firma di André Aciman, ebreo sefardita, autore conosciuto in tutto il mondo, particolarmente apprezzato dal pubblico italiano, docente di letteratura comparata alla City University di New York, un dottorato ad Harvard, grande esperto dello scrittore francese di origini ebraiche Marcel Proust.

Una identità secolare
«Sulle mie origini ebraico-egiziane? Sì, c’è molto da dire». Così esordisce André Aciman durante l’incontro con Mosaico-Bet Magazine, mentre si trovava in Italia per parlare di Mariana, il suo ultimo lavoro. «Sono nato ad Alessandria d’Egitto, ma non sono egiziano. I miei genitori provenivano dalla Turchia, erano ebrei sefarditi; quindi, di origine spagnola e a casa nostra si usava parlare lo spanyolito, lo spagnolo antico di Sefarad».

Multilingue, ha nel suo schedario glottico: inglese, spagnolo, italiano, greco, arabo, oltre al francese, lingua mater e il ladino, l’idioma giudeo-sefardita. «Mia madre era sordomuta, non conosceva lo spagnolo, sapeva il francese. Ha poi però imparato l’arabo e anche il greco, perché aveva molti amici che erano greci».
Durante gli anni Sessanta, protagonista di un destino condiviso assieme agli ebrei del mondo arabo, dall’Egitto, terra natia, in seguito alle persecuzioni antisemite del presidente Nasser, dovette uscire. Una fuga che portò lui e la sua famiglia a trasferirsi per un periodo in Italia, prima di approdare a Manhattan dove vive oggi.
Nel corso della conversazione, racconta anche dei suoi famigliari e del loro modo di vivere l’identità ebraica. «I miei prozii e i miei nonni, culturalmente parlando, erano molto ortodossi. Una quotidianità scandita da lunghe preghiere; ma nel contempo vivevano una vita molto mondana e trasgressiva, fatta di amanti e tradimenti. Quando ero solito andare a casa loro in occasione dello Shabbat, il rituale appariva ai miei occhi un momento lungo e noioso. A differenza mia, molti dei miei amici erano fortemente religiosi io, invece no», sottolinea. Il rapporto con l’ebraismo da quel preciso punto di vista è «zero», e Aciman lo dice senza giri di parole. «Non mi interessava nemmeno fare il Bar Mitzvà».

Una “non appartenenza” alla sfera religiosa ma non a quella identitaria che invece è forte e presente. «Per me essere ebreo significa sapere riconoscere l’essenza del tutto, sapendogli dare un senso, un valore. Da quel punto di vista sono molto ebreo. Vivere col paradosso essenziale dell’umanità. Sono una persona che pensa con ironia in modo costante». Questa è la versione laica, se così vogliamo definirla, che esprime Aciman: elementi dell’essere ebreo fatti dal sapersi porre delle domande e nell’avere dei dubbi. «Per me un ebreo che veramente non dubita dell’ebraismo non può dirsi ebreo».

Viaggiare tra le parole, esplorare il lessico
Una stella può rivelare molto di se stessa. Se la sua luce viene fatta passare attraverso un prisma, quel bagliore verrà scomposto in diversi colori; quel tipo di gradazioni che appariranno sveleranno molto circa la sua storia, permettendoci di conoscere di quali elementi della materia è fatta. C’è chi adora viaggiare tra i corpi celesti e chi invece tra le parole. Prendiamo il caso della parola “albicocca”: «Molte parole latine derivano dal greco. Nel caso di ‘albicocca’, però, è il contrario; sono i greci ad aver copiato. In latino si diceva praecoquum, da pre-coquere, cuocere prima, maturare prima, come in ‘precoce’, nell’accezione di ‘prematuro’. «I bizantini hanno preso in prestito il termine precox, che è diventato prekokkia o berikokki, da cui gli arabi devono avere ereditato al-birquq».

E una diatriba che si legge in Chiamami col tuo nome, dove lo studente Oliver espone la sua tesi filologica al professore che, per verificare la sua preparazione, gli aveva riservato un simpatico dolce tranello. «…La cosa più incredibile era che attualmente in Israele e in molti paesi arabi ci si riferisse a quel frutto con un termine del tutto diverso: mishmish», si legge dal romanzo.

 

Aciman nel ruolo di Mounir in “Chiamami col tuo nome”

André Aciman è per definizione un esploratore del lessico, con le parole viaggia, vi è un rapporto di magnetica attrazione. «Tra me e le parole c’è un rapporto molto profondo, quando c’è un vocabolo che voglio imparare, che prima non conoscevo, cerco sempre l’etimologia, perché devo conoscere i parenti di quella parola. Bisogna risalire a generazioni di centinaia di anni e mi piace molto farlo, per questo motivo la mia etimologia di ‘albicocca’ è corretta!», esclama sorridendo. Si riferisce proprio al dialogo – sopracitato – di Chiamami col tuo nome, romanzo di successo destinato a essere uno dei migliori del suo genere, dal quale è stato tratto un film di altrettanto successo, con l’omonimo nome. La storia è ambientata nell’Italia del Nord, degli anni ’80, e narra del profondo rapporto che nasce tra Elio, un giovane di 17 anni, e Oliver, uno studente americano, entrambi accomunati dalle origini ebraiche, il primo con «la stella di David d’oro» sotto la maglietta, l’altro più disinvolto e meno discreto, messa in bella vista, fuori dalla camicia. E in quel film Aciman ha preso parte, interpretando il ruolo cameo di Mounir. Tornando al ruolo delle parole, è risaputo che esse costituiscono un timbro caratteristico e indissolubile dell’universo ebraico, di fondamentale importanza. Sono il sigillo che da Abramo lega l’intera discendenza ebraica. È una sinfonia che unisce Aciman, assieme agli altri ebrei nel ricco pluralismo delle idee: con Amos Oz, che nel libro scritto con la figlia Fania, Gli ebrei e le parole, affronta un dialogo sulle radici dell’identità ebraica; con Carlo Levi se pensiamo al libro Le parole sono pietre – giusto per citarne alcuni. Di loro bisogna farne buon uso. Tuttavia se le guardiamo da altri punti di vista,  esse hanno effettivamente un peso, un valore effettivo, non a caso la Ghematria ce lo fornisce.

 

L’amore come realtà aumentata
E una parola, un nome, un singolo particolare, o dei tratti peculiari di alcuni personaggi, sono le note olfattive che profumano di ebraismo, disseminate nella piramide letteraria di Aciman. L’Italia, l’equilibrismo tra amore ed eros, il mondo classico, da Eraclito ad Ovidio, sono tra i suoi punti cardine.
La solitudine, quasi come una compagnia, il pensare all’amore quando questo non c’è più: dalla lettura dei suoi testi emerge un alfabeto che è un atlante delle emozioni umane, dove l’autore tiene acceso lo stoppino della sofferenza del “mal” d’amore, poiché, come afferma, c’è una parte di lui a cui piace avere il cuore infranto. «Non avere il cuore infranto significa che non hai mai fatto niente, che non hai subito niente, che non ti sei aperto, che ne sei uscito “pulito”, indenne. E come si può amare “restandone fuori”? Che cosa rimarrebbe allora dell’amore? Quando perdi una persona che hai amato, ti rimane qualcosa, quella perdita è un di ‘più’, non è un ‘meno’. Un di ‘più’ perché sei diventato più consapevole, più profondo, più umano». Una realtà aumentata, questo è amare.