Quando il nemico non è un interlocutore possibile. Il rifiuto arabo alla trattativa rivela il vuoto politico

di Claudio Vercelli

[storie e controstorie]

Va da sé che la pace la si debba fare con il proprio “nemico” (anche se a volte è bene guardarsi da certi amici). È non meno vero che quest’ultimo non se lo si sceglie. Ma affinché sia un interlocutore, occorre che si disponga in tal senso. Detto questo, quasi dispiace il dovere ripetere un’ovvietà, benché occorra continuare a farlo (soprattutto dinanzi a coloro che comunque volgono il loro sguardo altrove, fingendo di non capire): non ci potrà mai essere un accordo di pace finché ciò che resta della politica palestinese sarà consegnata ad organizzazioni quali Hamas, il Jihad islamico come anche quelle – è il caso di Hezbollah – che in questi ultimi due decenni se ne sono disputate la rappresentanza pur essendo in tutto e per tutto centrali operative di Paesi stranieri.

I detrattori d’Israele parlano, a tale riguardo, di un «alibi». Un alibi che il Paese, e le sue classi dirigenti, si sarebbero costruite ad arte, per giustificare con inesistenti responsabilità altrui la propria colpa di non cercare né, tantomeno, volere, la pace con la controparte. Ci permettiamo di dissentire nettamente. La ragione politica del radicalismo palestinese è purtroppo una sola: la distruzione dell’«entità sionista». Dietro queste due parole c’è tutto il dispositivo di satanizzazione d’Israele e del sionismo medesimo. Ovvero, la deformazione dell’una e dell’altro, sospesi tra il caricaturale e il terrificante.

Israele è uno Stato inesistente, ossia presente di fatto ma senza alcuna legittimazione: è una sorta di realtà fittizia, che occupa abusivamente le terre altrui, costituendo un “errore” della storia. Il sionismo, a sua volta, è il “nuovo colonialismo”, anzi il “regime di apartheid”, se non la riedizione del “nazismo”. Ne abbiamo già parlato ma siamo comunque obbligati a tornarci sopra.

L’impossibilità dell’accordo sta nel fatto stesso che tali gruppi non intendono in alcun modo pervenire ad esso, non riconoscendo ad Israele una qualche liceità morale e civile, prima ancora che politica. Quasi che continuasse ad essere lo spettro di cui parlavano le leadership arabe nel 1948, promettendo di cacciare in mare gli “ebrei” e di cancellarne l’insediamento.

Poste queste premesse, che datano ad oramai già lontani trascorsi, non un passo in avanti è stato infatti compiuto da chi oggi dice di rappresentare le istanze della popolazione dei territori della Cisgiordania e Gaza. Semmai si è registrato un arretramento generalizzato dalle timide aperture del passato. Ciò quanto meno dal 2000 in poi. Il problema non riguarda solo il residuo margine di negoziabilità di ciò che resta del vecchio conflitto israelo-palestinese, ma anche e soprattutto la fattibilità di una politica che prenda in considerazione le evoluzioni regionali, destinate comunque a riflettersi sugli antagonisti in campo. A partire dalla questione demografica e dal tema, di grande rilevanza, degli assetti ambientali ed ecologici. Che richiederebbero, già da soli, una qualche forma di cooperazione intensiva, al momento del tutto inesistente se non attraverso alcuni timidi rapporti selettivi e rigidamente bilaterali.

Il linguaggio di buona parte delle classi dirigenti palestinesi sembra essersi letteralmente ossidato su alcuni stereotipi di un passato che non passa, tale poiché in realtà non lo si vuole fare transitare: l’esasperazione della figura di una collettività militante (che piace molto ad una parte del pubblico occidentale), dove il popolo è una comunità di “martiri” (o aspiranti tali), comunque di vittime a prescindere; l’idealizzazione dell’appartenenza comune ad una società universale, caratterizzata da una impronta religiosa (l’Islam) che si fa, in questo genere di lettura, strumento politico per divellere confini e frontiere; la convinzione di avere una missione totalizzante da compiere, ossia la lotta del “bene” contro il male e così via.

Nulla di nuovo sotto il sole, si osserverà. In fondo sono questi i caratteri del fondamentalismo che si fanno, nel caso palestinese, radici del radicalismo islamista. Tuttavia si impone una riflessione, a margine di questo riscontro. La quale ci induce a denunciare come tutto ciò sia di accompagnamento e di corredo alla morte della politica. L’ossessione per un’identità cristallizzata, impermeabile al trascorrere del tempo, ne è un indice significativo. Certo, non è patologia di una sola parte, ma è non meno vero che chi ha saputo o voluto contrapporre alle circostanze della storia esclusivamente il suo rifiuto, ne risulti ora completamente soggiogato. Il fallimento della politica palestinese sta, a conti fatti, nella sua sostanziale inconsistenza. Un paradosso per chi dice ad Israele di essere un’entità abusiva. Ma la storia ha la sua dura “oggettività” e condanna chi non la sa affrontare con gli strumenti della politica, al rischio dell’auto-annichilimento. Vale la legge del contrappasso, in questo caso. Più che mai. Anche se il sospetto è che in certe rendite di posizione si nasconda anche qualcosa di profondamente inconfessabile, ossia quello che nel Gattopardo viene fatto dire a Tancredi: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Almeno a parole, quando si urla contro l’erba del vicino per continuare a coltivare il proprio orticello senza introdurre nuove sementi.