Parole come pietre, politicamente corretto e “cancel culture”: Dov’è il limite tra storia e razzismo?

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] Parliamo di “politicamente corretto” così come di “cancel culture”. Poiché l’impressione è che non si sia compresa, fino in fondo, quale sia la vera posta in gioco. Ovvero, quanto l’uno e l’altra siano rilevanti rispetto a quei temi di principio, che rimandano, ancora una volta, al nesso tra giustizia e libertà nelle nostre società. Che sono i presupposti della convivenza comune. Dobbiamo quindi intenderci sul senso delle parole. Le quali sono come pietre.

È giustizia ciò che riconosce ad ogni individuo un equo riconoscimento e trattamento dinanzi ai suoi bisogni, di qualsivoglia genere. Poiché le “società sviluppate” (espressione in sé ambigua ma necessaria in mancanza di altro) partono dal presupposto che non esistano persone che possano bastare a se stesse, semmai dovendosi riconosce in un legame di cittadinanza che, pur non tradendo il diritto alla differenza (religiosa, culturale, “etnica”, morale e cos’altro), richiede a ognuna di esse un atto di lealtà nei confronti delle istituzioni comuni. Non si tratta, per capirci, di una subordinazione bensì di una condivisione: si è cittadini italiani non perché siano violate le soggettività che coltiviamo nel nostro animo, ossia nelle appartenenze che condividiamo, e neanche perché ci poniamo proni e chini, ovvero in maniera acritica, rispetto a quanto le istituzioni comuni decidono nel nostro interesse. Semmai si è cittadini poiché ognuno di noi coltiva la propria “identità” (altra parola tanto necessaria quanto ambigua, per via dei molti significati che attribuiamo ad essa) dentro una cornice di regole condivise, ciò che chiamiamo con il nome di “leggi”, la cui funzione essenziale è di preservare la possibilità stessa, per ciascuno di noi, di manifestare il proprio modo di essere.

Alla giustizia, che è parte integrante del discorso che andiamo facendo, si lega il tema della libertà, che invece riguarda proprio il modo in cui dichiariamo la nostra identità, la maniera in cui esprimiamo il criterio con cui ci pensiamo. Che si tratti di identità individuale così come collettiva, ossia, in questo secondo caso, riferita ad un gruppo più ampio, non importa di quale natura (“sono ebreo”, “sono liberale”, “sono vegetariano” e così via: le suddivisioni, beninteso, non si equivalgono se non dal momento che condividono il fatto di definire un’appartenenza che per ogni persona ha un significato fondamentale per qualificarsi rispetto al resto della collettività). Bene, fatta questa introduzione, qual è il fuoco del problema di cui non si coglie l’effettiva rilevanza? Ci stiamo riferendo a quell’insieme di condotte pubbliche, e di atteggiamenti sempre più spesso condivisi, che si pongono a cavallo tra il cosiddetto “politicamente corretto” e la “cancel culture”. Per capirci, poiché ci stiamo addentrando su un territorio minato, mentre la prima espressione deriva “dalla locuzione angloamericana politically correct, con cui ci si riferiva in origine al movimento politico statunitense che rivendicava il riconoscimento delle minoranze etniche, di genere eccetera e una maggiore giustizia sociale, anche attraverso un uso più rispettoso del linguaggio” (Enciclopedia Treccani online), indicando quindi un atteggiamento di rispetto nei riguardi dei diritti delle minoranze e dei gruppi socialmente più deboli, il secondo, invece, di più recente conio, rimanda a qualcosa di diverso, comunque di maggiormente radicale.

Tra le diverse accezioni comuni, infatti, la “cancel culture” è la pratica, diventata molto diffusa nel web così come nei Paesi anglosassoni, di rimuovere dalla legittimazione culturale e civile persone o gruppi che siano considerati colpevoli di aver sostenuto – soprattutto in passato – valori contrari ai diritti delle minoranze, alla parità di genere, all’uguaglianza e in generale al politicamente corretto. Non di meno, costituisce un più generale atteggiamento di rilettura del tempo trascorso in ragione del quale si genera un moderno ostracismo, con cui si estromette qualcuno dalla dimensione pubblica, ritenendo che la sua condotta dei tempi che furono sia tale, per ludibrio, da meritare l’esclusione dall’odierno dibattito nell’arena collettiva. Colpisce quindi figure pubbliche come brand commerciali, prodotti di consumo e dell’entertainment a seguito di dichiarazioni o fatti considerati offensivi. Bene: che c’è di male? Ossia, tutto questo, cosa c’entra con la disattenzione che menzionavamo in esordio di discorso? Molto, a intendersi in maniera appropriata. In quanto la torsione e la degenerazione maniacale di ciò che vorrebbe altrimenti essere una chiara correzione di atteggiamenti, discorsi e condotte offensive nei riguardi delle minoranze, rischia di diventare un mediocre indice censorio nei confronti della comune libertà di espressione. Come se il problema fosse di stabilire a priori cosa sia offensivo e cosa, invece, non lo debba essere.

Ogni società che sia vitale, ovvero che non intenda morire ripiegata su di sé, richiede evoluzioni e mutamenti di pensieri e di senso comune. Ma nessuna collettività può pensare di riavvolgere il tempo trascorso come se fosse un tappeto da arrotolare. Magari illudendosi di azzerarlo. Non si può riscrivere – censurandolo – il passato. Poiché ciò che è stato non può essere riletto solo alla luce del presente. Altrimenti, dovremmo cancellare molto di quanto avvenne prima di noi. Non di meno, se la ragione del politicamente corretto è di definire cosa possa essere comunemente detto senza offendere le minoranze, al medesimo tempo qualsiasi difesa delle tante identità che compongono il mondo moderno non può prescindere dal fatto che esse debbano trovare, tra di loro, dei punti di mediazione e di condivisione. In altre parole, se ognuno ha qualcosa da rivendicare, ciò non può succedere a discapito della comune cittadinanza. Non si è solo ciò che si ritiene di essere ma anche quanto si intenda riconoscere dell’altrui storia. Solo così si rinnova il patto di coesione sociale senza il quale nessuna identità potrà avere un qualche spazio per continuare a manifestarsi. Non si cancella nulla, semmai si contestualizza e si storicizza.