La democrazia, o l’arte del difficile equilibrio

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie]

Come esiste un’intolleranza connotata dall’essere espressione di ambienti conservatori se non reazionari (un modo pudico per dire che è parte di certa «destra» antidemocratica) così sussiste una diffusa insofferenza del côté progressista, o presunto tale. Non si dà una legge del riequilibrio (poiché politicamente i fenomeni non sempre pari sono, come se invece si trattasse di due piatti della bilancia che presentano un peso identico, quindi in equilibrio, che annulla qualsiasi differenza). Piuttosto, si prenda atto che sussiste una specie di transitività dell’incompatibilità nei confronti di qualsiasi manifestazione di pluralismo. Come tale, è quindi un fenomeno trasversale agli schieramenti contrapposti.

A tale riguardo, non ci si preserva dicendosi di una parte piuttosto che di un’altra. Semmai, il problema è di comprendere, per ognuno di noi, quale sia il modo in cui ci si pone in una parte rispetto all’altra. Non esiste mai, nella vita, qualcosa che sia giusto a prescindere: sono i modi in cui pratichiamo le nostre convinzioni a fare la vera differenza tra quanto è accettabile e ciò, invece, che risulta detestabile. Per capirci ed entrare nel merito del tema: già ci siamo ripetutamente occupati, su queste ed altre pagine, della cosiddetta «cancel culture», al pari del «politically correct». Probabilmente, lo faremo ancora. Si tratta di una questione aperta, destinata ad occupare ancora la discussione culturale e politica. C’è chi mette in discussione l’esistenza del primo fenomeno, mentre enfatizza il presunto galateo sociale che deriverebbe dal secondo. È politicamente corretto quanto aderisce ad un vincolo di autolimitazione che arriva anche agli estremi di una censura di se stessi. È invece cancellazione ciò che riscrive il passato, di fatto obnubilando o comunque occultandone gli aspetti non allineabili con le aspettative del presente. In entrambi i casi, francamente, entra in gioco la riscrittura non solo di ciò che è stato detto ma anche di quanto si vorrebbe pensare. A noi, francamente, tutto ciò poco interessa. Benché inquieti. In quanto se ne cogliamo l’implicita rischiosità, per noi medesimi, non siamo appassionati dal lavoro maniacale e ossessivo di chi deve mettere etichette, come se la società fosse una raccolta di vasi di conserve, messi da parte per la stagione buona, quando potranno finalmente essere aperti, e quindi gustati, nell’appagamento dei commensali. Mentre invece ci interessa comprendere quali siano quei segnali comuni che ci restituiscono il senso del cambiamento collettivo che stiamo vivendo. Tra questi, per capirci, quegli atteggiamenti che coinvolgono l’opinione pubblica nel suo insieme, chiamandola in causa soprattutto quando tutto ciò avviene esclusivamente per fare in modo che essa reagisca in maniera istintiva dinanzi a ciò che è presentato come una preda da catturare.

Quindi, quando la politica, come ragione di lungo periodo, si inabissa, consegnandosi invece alla pura emozione isterica. Poiché proprio allora subentra il vincolo istintuale ed etologico. Quasi come se fossimo degli animali e null’altro. Ecco, il punto, in fondo, è questo: c’è un’autentica reciprocità, tanto più in questo caso, tra una certa destra e un’indistinta sinistra, accomunate dal richiamo ad un generico rimando alla «libertà» intesa come licenza individualista, dal momento che scoprono di coltivare in se stesse la vocazione di censurare l’altrui voce. In parole povere, ciò succede nel momento in cui “chi non la pensa come me è contro di me in quanto io sono il baricentro di tutto”. Si accompagna ad una tale disposizione d’animo il bisogno ossessivo di riscrivere il passato ad uso di un falso presente, inteso come una sorta di tempo eterno, tale poiché privo di scorrimento. Senza storia, quindi, in quanto quest’ultima, invece, ci racconta soprattutto delle discontinuità che connotano l’umanità. Non è ciò che è stato ad illuminare quanto sia ma, piuttosto, l’inverso. Piegandone il senso a proprio esclusivo beneficio. Un fatto che non è di certo gradito a chi finge di parlare di (e per) tutti, mentre mette in scena solo se stesso. Il punto di congiunzione tra certa destra ed una pari sinistra è pertanto l’enfatizzazione di una presunta «identità», intesa come una condizione immutabile, che equivale a cancellare la consapevolezza delle trasformazioni che riguardano l’umanità. Così come i gruppi che di essa fanno parte. A favore di una visione che vorrebbe azzerare ogni diversità nel nome di un’omogeneità di giudizi che è solo la porta di accesso all’omologazione. Discorsi difficili? Forse, ma comunque necessari. Le società «aperte» e plurali (Karl Popper) non sono mai comunità di facile interpretazione bensì agglomerati di individui, gruppi e organizzazioni tra di loro diversificati. Spesso in conflitto. Anche per questo la democrazia è il difficile equilibrio, da ricontrattare pressoché ogni giorno, tra i differenti tasselli di un mosaico in costante mutamento. La prescrizione coattiva, tale per atto di forza e di coercizione e non per comune convinzione, è la morte di una simile prospettiva. Poiché impone senza convincere. Quanto è calato dall’alto, prodotto dei temporanei rapporti di forza e non di una coscienza condivisa, diventa pertanto un totem da abbattere non appena possibile. Quell’universo di risentimenti, di impudichi atteggiamenti espressi in pubblico, di rivalse e di dinieghi, di improbabili azzeramenti che chiamiamo come “cultura della cancellazione”, non ha nulla di progressivo ma è solo una manifestazione di incosciente acquiescenza a ciò che, altrimenti, si dice di volere invece contestare, ossia un conformismo asfissiante. Non si tutelano le ragioni delle vittime del passato mettendo la mordacchia alla libera espressione dei giudizi nel presente.