di Roberto Zadik
Un nuovo libro, Saving Freud, racconta la fuga del padre della psicoanalisi da Vienna, invasa dai nazisti, mentre tutta la sua famiglia venne devastata dalla Shoah
Personaggio iconico del Novecento e di quello scomparso e vitalissimo mondo ebraico ashkenazita, che viveva nelle varie province dell’Impero austro-ungarico, il tormentato e brillante Sigmund Freud, nato in Moravia, attualmente Repubblica Ceca, emigrò nella “sua” Vienna a soli 4 anni.
Nella capitale dell’Impero divenne uno dei tanti illustri ebrei “viennesi d’adozione”, dall’ungherese Theodor Herzl al compositore boemo Gustav Mahler, ai galiziani come lo scrittore Joseph Roth, nato a Brody attuale Ucraina, e al regista Billy Wilder.
Dopo essersi laureato in medicina diventò neurologo, specializzandosi nello studio delle nevrosi e dei comportamenti umani. Tutto sembrava andare per il meglio quando, nel 1938, la situazione precipitò e la sua patria gli voltò le spalle. Come riuscì a mettersi in salvo dalle atrocità del nazismo l’81enne Freud, prima di emigrare a Londra, città in cui morirà solamente un anno dopo per tumore alla gola, il 23 settembre 1939?
A rispondere a questo interrogativo è arrivato il libro di Andrew Nagorski Saving Freud (Simon and Schuster, pp. 352), al quale il Times of Israel ha dedicato un interessante articolo il 26 settembre, firmato dal giornalista J. P. O’Malley. Il libro descrive l’ultimo periodo della vita di Freud, cominciando dall’avvento del nazismo a Vienna quando le truppe naziste, il 15 marzo 1938, invasero l’Austria e 250mila persone accolsero trionfalmente l’ingresso dello spietato dittatore Hitler quando si affacciò al balcone del palazzo di Hofburg per tenere il suo discorso. Da quel momento iniziò una sanguinosa spirale di persecuzioni e violenze antiebraiche.
Il testo di Nagorski riporta come Freud, rinchiuso nel suo ufficio a Berggasse 19, “fosse automaticamente, da subito, in pericolo come ebreo e come volto pubblico della psicologia, che i nazisti bollavano dispregiativamente come una pseudoscienza ebraica”. La fuga del celebre psicoanalista cominciò il 4 giugno 1938, salendo su un treno per Parigi ma, non avendo mezzi, dovette avvalersi di una collaudata “squadra” di amici e collaboratori; lo aiutarono i suoi “seguaci” come Ernest Jones, William Bullitt, Marie Bonaparte e sua figlia Anna Freud.
“Un misto di personalità diverse per estrazione sociale e nazionalità”, evidenzia Nagorski, fecero di tutto per salvare il loro ispiratore, “accomunate dalla devozione verso Freud e le sue teorie”. “Volevano metterlo in salvo, superare la sua resistenza a lasciare la sua Vienna” ha specificato Nagorski che, come ha evidenziato il Times of Israel, è un giornalista di solida esperienza, corrispondente esteri della celebre testata americana Newsweek da vari Paesi, dalla Germania, alla Polonia, alla Russia, all’Italia.
Un articolo, pubblicato dal New York Post il primo ottobre e firmato da Mary Kay Linge, mette in luce una serie di particolari sul testo e sulla vita di Freud. Il suo addio a Vienna fu particolarmente difficile e doloroso per lui che, per 47 anni, aveva lavorato nella sua casa-studio a Berggasse accogliendo, assieme alla moglie Martha, i suoi tanti pazienti con gentilezza e affabilità. Per anni Freud cercò di resistere, negando la minaccia hitleriana, come sottolinea il testo, pur di non lasciare Vienna.
Era un esperto nell’analisi delle forze oscure e delle pulsioni animalesche dell’animo umano che, ironia della sorte, lo stavano costringendo ad andarsene da anziano malato qual era e che, meno di dieci anni prima, aveva esplorato la “crudeltà aggressiva dell’uomo” nel suo saggio Civilizzazione e malcontento. Freud si era illuso, come molti altri ebrei laici e profondamente assimilati alla società circostante della sua generazione, che la colta, cosmopolita e stimolante Vienna e la sua gente mai avrebbero ceduto al nazismo scacciando i suoi ebrei. “Possiamo aspettarci che il movimento di Hitler si diffonderà anche qui in Austria” scriveva, con ingenuo ottimismo, nel suo diario “ma non avrà le stesse proporzioni che in Germania”.
Indebolito dalla malattia, un tumore alla gola, derivato dal fumo compulsivo dei suoi adorati sigari, Freud definiva “inconcepibile” la fuga da Vienna e, secondo vari amici, “non riusciva a immaginare nessuna vita da qualunque altra parte”. Nemmeno l’invasione nazista e la distruzione della sua casa editrice, Stampa Internazionale Psicanalitica, sembravano prove abbastanza convincenti per il testardo e patriottico Freud. Ma, alla fine, il suo discepolo gallese, Ernest Jones, che esportò le sue idee in Gran Bretagna e Stati Uniti e l’ambasciatore americano in Francia, William Bullit, lo convinsero a partire per Parigi; quest’ultimo gli assicurò un tragitto sicuro da Berlino alla capitale francese.
Parte del suo “team di salvataggio”, oltre a Jones e a Bullit, fu la bisnipote di Napoleone, Marie Bonaparte, moglie del Principe di Grecia e Danimarca Giorgio, che parcheggiava regolarmente la sua macchina regale fuori dallo studio di Freud ed era sua paziente. Fra i fattori determinanti che convinsero Freud alla fuga ci fu l’arresto da parte della Gestapo di sua figlia Anna, in quel tragico 22 marzo 1938. Dopo dieci settimane e il pagamento da parte di Marie Bonaparte di una salatissima “tassa di fuga” (circa 237 mila dollari di oggi) Freud, Martha e la figlia Anna presero quel fatidico treno Orient Express diretto a Parigi. “Ora siamo liberi” disse Freud quando il mezzo attraversò il Reno.
Rosa, Marie, Adolfine e Pauline, le sorelle di Sigmund Freud, che il padre della psicoanalisi lasciò a Vienna, pensando forse che sarebbero state risparmiate dai nazisti per la loro età, perirono in modo tragico e umiliante, in campo di concentramento, tra il 1942 e il 1943.
Freud passò gli ultimi 16 mesi della sua vita a Londra curando i pazienti sullo stesso divano che aveva portato miracolosamente in salvo da Vienna e, nonostante amasse la sua nuova patria definendola “una terra felice abitata da gente ospitale”, continuò ad amare “la prigione, Vienna, dalla quale sono stato liberato”.