Il sogno ebraico di Jung?

di Daniela Abravanel

Dopo la Giornata europea della Cultura, parliamo ancora di sogni. Grande fu l’influenza dell’ebraismo su Carl Gustav Jung, discepolo di Freud, tra i padri della Psicologia del profondo. Una iniziale simpatia per il nazismo – poi ripudiato – “macchiò” il rapporto con il mondo ebraico, che ancora oggi guarda con sospetto al suo insegnamento. Perdendo un’opportunità

«Io sarò Mosè e tu sarai Yoshua», così si espresse Freud, parlando della nuova “religione” che avrebbe creato insieme a Jung – che avrebbe dovuto aiutare la psicoanalisi a uscire dal ghetto ebraico viennese e ottenere l’universale riconoscimento del suo valore terapeutico.

Daniela Abravanel. Foto di Marco Caselli Nirmal

Da parte sua Jung aveva trovato nella tradizione ebraica una mappa del percorso dell’anima per il ritorno al proprio centro divino, espresso sinteticamente nel comando divino a Abramo: Lech Lecha, “vai a te stesso”, lascia la tua famiglia, la tua terra, la tua cultura. Mosè stesso, prima di divenire profeta di Israele, fece la sua personale esperienza del divino al Roveto Ardente e visse il percorso di individuazione che lo allontanò dagli stereotipi della società faraonica in cui viveva.
L’intera Bibbia parla il linguaggio dei sogni (50 capitoli dedicati ai sogni e ben 110 citazioni sul tema, in confronto alle otto del Nuovo Testamento). Forse anche per questo Jung aveva contemplato la conversione all’ebraismo (prima di trovare un’ispirazione altrettanto potente nel Taoismo).

La collaborazione tra i padri della psicoanalisi si interruppe perché Freud rifiutò di “contaminare” la psicoanalisi con la religione, rompendo definitivamente con Jung e Ferenci, che vedevano nelle Scritture il contesto simbolico più appropriato per interpretare il dramma evolutivo dell’anima. Per Jung il distacco divenne violento conflitto quando Freud cercò di imporgli la Teoria della sessualità come colonna centrale della psicoanalisi. L’antagonismo di Jung verso il suo maestro fu interpretato da molti analisti come una riproposizione del conflitto irrisolto con il proprio padre (per anni sostituito dalla figura di Freud).
Purtroppo tale conflitto oppose per anni Jung alla “psicologia ebraica” e all’ebraismo stesso, aprendolo alla seduzione ideologica del partito nazista (che durò dal ‘33 al ‘37). Dopo tale data, Jung comprese il vero volto del nazismo, se ne distaccò non solo teoricamente (con vari scritti contro il nazismo, finendo così anche lui sulla lista nera dei tedeschi) ma anche aiutando un numero enorme di ebrei a salvarsi dalla Germania nazista.

Comunque le conseguenze del periodo di rottura di Jung con l’ebraismo rappresentano una perdita enorme sia per il mondo ebraico sia per quello psicoanalitico: Jung, conoscendo l’ebraico, aveva accesso a molti testi in versione originale, incluso lo Zohar, e la sua opera di fatto rappresenta una delle più profonde e inquietanti interpretazioni delle Sacre Scritture.
Ma il mondo ebraico nella maggioranza continua a ignorare il lavoro di Jung. Come mai? Nonostante Gershom Sholem e altri intellettuali ebrei accettarono la sincerità della “teshuvà” di Jung, il sospetto e la negazione del valore della psicologia junghiana resta tale che nell’Encyclopedia Judaica Jung viene citato solo una volta, come “allievo” di Freud!

La “teshuvà” di Jung verso l’ebraismo continuò fino ad età avanzata, quando riconobbe l’enorme debito nei confronti della Torà, affermando (in occasione del suo 81esimo compleanno) che la vera fonte del suo sistema erano gli insegnamenti della Qabbalà e della Hassidut.
Purtroppo il circolo vizioso del sospetto colpì anche il mondo junghiano, in genere rimasto insensibile alle parole e al modello del maestro che arricchì la pratica analitica, riconnettendola alla mistica e alle Scritture. Per quel che riguarda il mondo ebraico, dove ancora oggi i disagi psichici sono spesso trattati con psicofarmaci che anestetizzano la spinta evolutiva dell’anima o soffocati nell’orizzontalità della psicologia freudiana, le conseguenze sono forse ancora più drammatiche.
Personalmente, come paziente e come terapeuta, solo affidandomi alla psicologia junghiana (capace di inquadrare i drammi personali nel contesto di una terapia autenticamente trans-generazionale) ho ritrovato il filo di un percorso evolutivo che contiene secoli di aspirazioni e inquietudini: in poche parole l’“unfinished business”, come direbbe Jung, del mondo sefardita.