“Il Padreterno, con quello che ha combinato, può solo parlare con il mio avvocato”

Libri

di Fiona Diwan

Al di là delle battute alla Woody Allen, il tema dell’umorismo ebraico è pieno di implicazioni filosofiche e letterarie. Lo spiega l’ultimo saggio di Luca De Angelis

Yom Kippur, in un anno imprecisato del XVIII secolo: «Maestro del mondo, perché ce l’hai con il tuo popolo di Israele? Se tu hai intenzione di darci un nuovo anno dolce, decidilo e scrivi il decreto subito; ma se al contrario, tu ci stai preparando un anno duro e amaro, allora io ti ricordo che anche tu non hai il diritto di scrivere in un giorno di Kippur!». Salito sulla tevà e rivolto al cielo, così Rabbi Levi Itzchak di Berdicev apostrofava l’Onnipotente. Yom haKippurim si dice anche al plurale perché la domanda di perdono è reciproca, sottolineava divertito il Rabbi, anche il Padreterno avrebbe molto da farsi perdonare e dovrebbe recitare il Vidduj, la confessione delle proprie trasgressioni, avendo anch’esso bisogno dell’indulgenza e della comprensione umana per la sue mancanze.

Il Padreterno tirato per la giacchetta, un Dio immanente e vicino, che dispensa angosce e regala la capacità di riderne: che cosa c’è di più ebraico? Questo e altro si chiede, con dovizia di fonti letterarie, citazioni, storielle, lo studioso Luca De Angelis nel suo ultimo saggio, L’uomo pensa, Dio ride (Marietti), una lettura che scorre piacevole e approfondita, declinando i numerosi risvolti dell’umorismo ebraico nella sua lunga e travagliata epopea ashkenazita.

Da Italo Svevo a Woody Allen, da Shalom Auslander a Isaac Bashevis Singer, da Howard Jacobson a Arthur Koestler a Romain Gary… Soprattutto Romain Gary nella sua esistenza dolorosa ed epica, Gary la cui prosa Luca De Angelis – specie ne L’angoscia di Re Salomone -, considera la quintessenza del witz ebraico, Gary come grande epigono dell’umorismo autodenigratorio e disperato trasmigrato a Hollywood e nella letteratura ebraico americana in talune pagine di Philip Roth, Bernard Malamud, Saul Bellow, o nei film di Mel Brooks e altri cineasti.

Una ricognizione puntuale, uno scorrazzare libero – e a suo modo ilare -, tra racconti e battute, tra letteratura profana e sacra, alla ricerca dei luoghi, dei modi e delle sorgenti esistenziali da cui scaturisce il fiume in piena della risata, della buffoneria paradossale, dell’irriverenza ebraica. Ma anche lo humour che nasce da un’etica della protesta, lo spirito di rivolta da cui sgorga la comicità disillusa e amara di chi sa che lassù in alto c’è qualcuno che, affliggendoci con ogni sorta di grattacapi, se la ride dei nostri progetti. Aneddoti, spunti di riflessione: la disamina di De Angelis è piena di sollecitazioni. Lo studioso si sofferma sul tema della risata ebraica come igiene dell’anima, forma di purificazione, lo humour che è come bruciare il Chametz a Pesach, che elimina i lieviti che gonfiano a dismisura il nostro Ego vanaglorioso. Humour come richiamo all’umiltà, nel rispetto del significato simbolico della matzà. Comicità che affonda le sue radici in una sorta di Weltschmertz ebraico, il sentire il dolore del mondo e farlo proprio. Angoscia e buffoneria dissimulata sotto un’aria seria, per sottolineare con crudeltà e amarezza l’assurdità del mondo. Perché l’umorismo non è un senso come un altro, è un controsenso, è un mettere a nudo, è “una nuova religione per tempi difficili”, ci spiega l’autore citando il filosofo Marc Alain Ouaknin.

 

Che cos’è la vita per l’ebreo se non un combattimento all’arma bianca? La spada è l’umorismo e se forse non si vince almeno ci si sbellica un po’.
L’umorismo ebraico non è forse messianico? Lontano dall’arrendevolezza, espressione di speranza? E che cos’è in fondo il messianismo? È immaginazione creatrice attraverso cui si aspira all’impossibile, spiega lo studioso ferrarese, è un andare in cerca di assoluto e di salvezza, elevando l’irreale al rango di reale vero, mescolandosi allo spirito dell’utopia. È accanirsi contro l’irrimediabile, conquistare l’impossibile, accendersi davanti alle storture ma farlo con il burlesco e con la parodia «che rappresentano la sola forma di protesta metafisica accessibile all’uomo».

Perché, in definitiva, il riso e la derisione tendono a scongiurare i pericoli dell’idolatria, come testimoniano i capolavori letterari della tradizione yiddish. In questo mondo osceno e brutale è proibito piangere, niente lacrime ma soltanto risa, scriveva Sholem Aleichem. “Ero talmente occupato a mettere ordine sulla terra che lasciai raffreddare il caffè”, fa dire Isaac Bashevis Singer a un suo alter ego animato da ferventi ideali rivoluzionari e promesse di giustizia universale.

Alla base dello humour ci sarebbe la tecnica del rovesciamento, del capovolgimento di prospettiva: è la propensione millenaria a giocare con le parole e con i concetti tipici del Midrash, capriole di arguzia e acrobazie ermeneutiche dei testi della tradizione. Perché è più facile apprendere nella gioia e nell’allegria che non nella noia e nei musi lunghi.

Eppure, il segreto dello humour ebraico non starebbe tanto nella gioia bensì nella sofferenza, ci dice De Angelis. Umorismo come distanza di sicurezza per rendere tollerabile un destino di marginalità, per alimentare la fiducia in tempi migliori. Umorismo come bene di prima necessità, kit di sopravvivenza per l’ebreo di ogni tempo e luogo. Nel volume, gli aneddoti si susseguono: come ad esempio il poeta tedesco Heinrich Heine, – ebreo convertitosi per questioni di opportunità -, che sul suo letto di morte, al prete che lo esorta a invocare la grazia di Dio e a sperare nel perdono dell’Onnipotente avrebbe risposto, «certo che mi perdonerà, dopotutto è il suo mestiere». O quando, leggendo l’elenco dei peccati umani, il Magghid di Metzerich ride, ed ecco “che scende sul mondo un velo di mitezza” (Peter Handke). Che dire poi della vena caustica di Sigmund Freud? Per poter lasciare Vienna nel 1938 si vede costretto a sottoscrivere un documento che attesti il buon trattamento ricevuto dalle autorità tedesche. Eccolo allora che aggiunge sul foglio queste parole: «Raccomanderei calorosamente a tutti la Gestapo», adoperando la stessa locuzione utilizzata generalmente per le referenze dei domestici. Inutile dire – e meno male -, che le SS, leggendo le sue raccomandazioni, non avvertirono l’ironia né seppero coglierne il pesante sarcasmo.

 

Luca De Angelis, L’uomo pensa, Dio ride. Declinazioni dell’umorismo ebraico, Marietti 1820, pp. 280, euro 17,00

 

Foto in alto: Gene Wilder e Harrison Ford in The Frisco Kid (Scusi, dov’è il West?)