Mosè sul monte Sinai (dipinto di Gerome Jean-Léon)

Dopo la Shoah, serve una riflessione filosofica e teologica per ricostruire il Patto del Sinai

Libri

di Ugo Volli

[Scintille. Letture e riletture]  Per molti ebrei che si impegnano nella vita del nostro paese, il Giorno della Memoria costituisce una sorta di obbligo: bisogna partecipare ai viaggi, andare nelle scuole, spiegare, illustrare, raccontare i crimini immensi e orrendi di cui il popolo ebraico è stato vittima. Lo facciamo con dolore e con rispetto, anche riconoscendo l’immensa fatica cui si sono sottoposti molti sopravvissuti per cercare di far capire ai giovani i meccanismi politici e sociali che condussero alla Shoah ed educarli. Questo impegno è dedicato soprattutto all’esterno, ai concittadini non ebrei. Vi sono dei momenti di ricordo ebraici, in Israele lo Yom haGevurà ve haShoah, che lo Stato di Israele ha stabilito fra Pesach e il Giorno dell’Indipendenza (quest’anno sarà il 18 aprile), per il ricordo più religioso il 10 del mese di Tevet, il digiuno istituito per ricordare l’inizio dell’assedio babilonese di Gerusalemme (quest’anno è stato il 3 gennaio).

Tutto ciò riguarda il ricordo. Ma la Shoah è una tragedia così terribile, un evento di dimensioni tali nella storia ebraica, da esigere di essere pensata e compresa non solo dal punto di vista delle dinamiche politico-sociali, ma anche sul piano religioso, filosofico, teologico. Dopo un tempo iniziale di attonito silenzio, molti pensatori ebrei si sono interrogati intorno a questo problema. Il libro che meglio sintetizza e classifica questo dibattito pieno di angoscia e di dolore è Le terze tavole di Massimo Giuliani, uscito un paio d’anni fa da Giuntina.

Ovviamente la colpa della Shoah è di coloro che la organizzarono, la eseguirono, vi assistettero senza impedirla. Ma che significato ha una sciagura così grande nella storia spirituale del popolo ebraico? Il popolo di Israele si costituisce sulla base di un patto con la Divinità, il cui suggello è il dono della Torà. Dal punto di vista ebraico non si può pensare la Shoah senza far riferimento al patto e prendere atto che non vi è stato un intervento divino per impedire il genocidio. Che rapporto ha dunque la Shoah con la rivelazione del Sinai? Ne costituisce la negazione, il termine opposto che in qualche modo ne chiude il ciclo? Alcuni degli autori discussi da Giuliani ritengono che non si possa evitare di far fronte a questo pensiero. Altri lo negano e pensano che la sopravvivenza del popolo ebraico a una persecuzione così generale e omicida sia un dovere, addirittura, come dice Emil Fackenheim, un nuovo precetto che si aggiunge ai 613 elencati dalla tradizione: il popolo ebraico non deve dare una vittoria postuma al nazismo, ma vivere e ricordare.

Giuliani sottolinea che il modo in cui guardare a questa terribile sfida alla ragione e alla fede non possa essere un’astratta teodicea (giustificazione divina) come quelle elaborate nella filosofia occidentale, ma debba formularsi nella lingua narrativa e di immagini del Midrash, che è caratteristica del pensiero rabbinico. La proposta di questo libro, come emerge fin dal titolo è quella del dovere di far rivivere il patto del Sinai: come Mosè ruppe le prime tavole della legge di fronte al peccato del Vitello d’oro e ne dovette riscrivere il contenuto su nuove tavole, la Shoah forse ha infranto spiritualmente anche queste ultime (ormai da millenni scomparse e rimaste solo nella tradizione e nello studio) e il compito che resta all’ebraismo è di riscriverle ancora una volta conservandone il senso e il valore. Sono proprio queste “terze tavole”, e cioè in sostanza lo studio e il pensiero della tradizione, la consapevolezza della tensione dei valori, che ci consentono di mantenere l’identità ebraica e il patto.