Theodor Herzl

Da catastrofi e disastri a volte ci si salva. Dall’utopia alla distopia letteraria, il caso israeliano

Libri

di Cyril Aslanov

[Ebraica. Letteratura come vita] Lo Stato di Israele è nato da un’ispirazione essenzialmente utopica: il protosionista Moses Hess è stato designato da Marx come un rappresentante del socialismo utopico; la dimensione utopica compare anche negli scritti del padre del sionismo politico Theodor Herzl: nello Stato ebraico si può percepire la volontà di creare una società modello e questo slancio utopico è ancora più palese nel romanzo di fantapolitica Altneuland, “antico nuovo paese” (1902). Nel nuovo yishuv, l’insediamento ebraico in Palestina ottomana e mandataria, si creò il modello sociale del kibbutz ispirato da ideali che combinavano il socialismo utopico alla Proudhon con il messaggio di Tolstoi.

Tuttavia, da molto tempo, questa dimensione utopica è compromessa giacché il paese è stato messo a confronto con la dura prova della realtà: le guerre ripetute con i vicini arabi; il trauma della Shoah nei ricordi individuali e nella memoria collettiva; gli sconvolgimenti politici di un paese in mutazione perenne; il terrorismo palestinese; le difficoltà economiche e tante altre vicende che spesso fanno di Israele uno Stato tutt’altro che utopico. Questo può spiegare il successo di un genere letterario particolare nella letteratura ebraica moderna, quello della distopia.
Già nel 1987 Itzhak Ben-Ner pubblicò un romanzo di fantapolitica intitolato Mal’akhim ba’im (Stanno venendo degli angeli) in cui l’autore immagina Israele nel ventunesimo secolo considerato dalla prospettiva degli anni Ottanta del Novecento: un paese dove la forza dei religiosi cresce in proporzioni inquietanti (il protagonista principale David Halperin è stato vittima della loro violenza) e dove la gente parla in angrit, una mistura di ebraico e inglese, non così diversa dall’ebraico americanizzato che si parla oggigiorno in Israele.

Nel 1992, la romanziera Orly Castel-Bloom pubblica Dolly city (2008 con lo stesso titolo in traduzione italiana, Stampa Alternativa) dove immagina una città distopica che assomiglia a Tel Aviv, una Tel Aviv sproporzionata e resa ancora più frenetica e pazza di quanto lo sia realmente. Nel 2002 la stessa Castel-Bloom, in piena seconda Intifada, propone al pubblico Halaqim enoshiyim (Parti umane nella traduzione italiana pubblicata nel 2008 da e/o). In questo romanzo si ritrova l’atmosfera dell’inverno 2002 quando quasi ogni giorno un attentato suicida costava la vita a decine di civili nei centri urbani di Israele. Questo non era distopia ma quasi descrizione realista. Ciò che trasforma questa descrizione amplificata in distopia è la descrizione di un’epidemia di influenza saudita che anticipa in modo quasi profetico le prime fasi della pandemia avvenuta 18 anni dopo.

Già nel 1997, il tema di una pandemia devastante venne trattato da Hamutal Shabtai. Questa giovane psichiatra (aveva solo 41 anni al momento della pubblicazione del suo libro) immagina una mutazione che rende il virus dell’AIDS trasmissibile attraverso l’aria che si respira e non solo tramite il sangue. Lo scatenamento di questo AIDS, molto più aggressivo di quanto lo fosse l’HIV reale, provoca una divisione del pianeta fra i paesi che riescono a proteggersi della pandemia e quelli più esposti ad essa. Curiosamente, questa distopia che riguarda il mondo intero e non più solo Israele è intitolata 2020, l’anno in cui il COVID 19 diventò effettivamente una pandemia mortifera.

La vena distopica nella letteratura israeliana sembra riflettere la capacità di giovani autori particolarmente sensibili (per non dire profeticamente lucidi) di anticipare guai avvenuti in un modo appena diverso nella realtà dei decenni successivi. Nel 2008 Assaf Gavron pubblicò il suo romanzo Hidromania (Idromania nella traduzione italiana pubblicata nel 2013 da Giuntina) che dipinge la situazione catastrofica di Israele e del mondo nel 2067. In questa realtà l’acqua è diventata una risorsa infinitamente più rara del petrolio o del gas. Gavron ha capito che in una prospettiva propriamente israeliana la questione dell’acqua si connette con il problema della vicinanza problematica con i palestinesi della Cisgiordania, serbatoio idrico della Terra di Israele, con i siriani che controllano le sorgenti del Giordano nonché con le relazioni spesso tese con la Turchia, paese ricco di acqua.

Nella sua distopia i palestinesi hanno (ri)conquistato la quasi totalità di Israele e la siccità è diventata un problema onnipresente nel pianeta intero. In questo contesto, un ingegnere israeliano sposato con una certa Maia, il cui nome vuole dire “acqua” in aramaico e in arabo, ha inventato un procedimento rivoluzionario per lottare contro la siccità.
La capacità di questi giovani autori (erano tutti meno di cinquantenni al momento della pubblicazione delle loro distopie) ad anticipare le vicende della nostra realtà quotidiana si spiega fra l’altro con l’angoscia esistenziale che ogni israeliano sente di fronte al divario fra una realtà rassicurante che sembra quasi la realizzazione dell’utopia sionista e le minacce esistenziali sospese come una spada di Damocle: minaccia terrorista; corsa contro l’orologio per neutralizzare la capacità iraniana di dotarsi dell’arma nucleare; tensioni crescenti fra i componenti di una società frammentata che assomiglia alla distopia di Mal’akhim ba’im.