“Ascolta il mio cuore, o Gerusalamme”

Libri

di Fiona Diwan


“Israele è una continua scelta tra rannicchiarsi nella prudenza e aprire le braccia alla vita senza fare i conti. No pain, no gain, diceva un amico, se non patisci non porti a casa niente. Chi viene a Gerusalemme deve guadagnarsene l’incanto e capirne il significato a sua volta, capire quanto ci costa, cama ze ole lanu, come dice la canzone di Schlomo Arzi, un inno roco, doloroso e vitale…”. Così scrive Fiamma Nirenstein nel suo ultimo libro, A Gerusalemme, Rizzoli, duecento appassionate pagine che sono nel contempo un diario intimo e pubblico, un saggio storico, una guida di viaggio, un romanzo d’amore, un pamphlet politico e un’autobiografia. Certamente un tentativo, convinto e pugnace, contro ogni propaganda e forma di delegittimazione, di ribadire la centralità di Gerusalemme nel destino ebraico contemporaneo smontando, panzana dopo panzana, quel castello di bugie messe in piedi da Arafat quando, proprio a Camp David, nel 2000, davanti a un attonito Clinton, se ne uscì dicendo che il Tempio di Salomone non era mai esistito e che Gerusalemme per gli ebrei, storicamente parlando, non aveva nessun fondamento, era poco più che un mito politico. Da notare, sottolinea Nirenstein, che la mistificazione regge ancora ed è la pietra angolare di un negazionismo che mira a affossare qualsiasi legittimità di Israele sulla città santa.

Come ai tempi in cui, negli anni Settanta, si diceva genialmente che il personale è politico, anche nella narrazione della love-story tra Nirenstein e Gerusalemme, il tema privato, gli incontri, le impressioni, il mestiere di cronista, assumono una valenza pubblica e appunto politica; quando la giornalista fiorentina ci parla del giorno in cui saltò per aria il Caffè Hillel, durante la stagione degli attentati kamikaze, e il suo cuore smise di battere per un istante perché proprio lì suo figlio Benny andava a fare merenda dopo la scuola, ci sta dicendo quanto sia difficile separare i piani. E così la vita privata, il suo destino di madre che vive in Israele, si mescola con la vita della corrispondente, la scuola del figlio o i viaggi del marito Ofer, cameramen, con gli incontri al vertice, i reportage da Gaza o da Ramallah si fondono con le passeggiate sulle mure ottomane, con le serate a Mamillah e le visite all’Herodion. Ed è proprio questa mescolanza di piani e punti di vista che ci cattura, parlando al cuore e alla ragione, suscitando il sorriso, l’inquietudine, la rabbia per i frutti avvelenati germinati dal rifiuto arabo. Il tono flamboyant con cui Nirenstein racconta della centralità ebraica di Gerusalemme è quello di un accorato cipiglio. “Per me Gerusalemme è innanzitutto ebraica, punto. E non credo che dividerla sarebbe risolutivo rispetto alla pace, con tutto il rispetto per le diverse religioni o culture. Ormai la questione di Gerusalemme è tra le più irrisolvibili del mondo e ogni processo di pace discute la questione solo per trovarla impossibile”.Una città che orienta e disorienta, un paesaggio dell’anima, dove c’è l’Even ha-Shetiyyah, la Pietra di Fondazione, su cui il mondo si basa per non andare in pezzi, dice l’ebraismo. Storia, attualità, emozione, dall’Intifada alla Guerra del Golfo a quella dei Sei Giorni. Come quando Moshe Dayan, dopo la conquista nel 1967, arrivò al Kotel e disse con la nota causticità: “E ora che ce ne facciamo di tutto questo Vaticano?”, già intuendo la forza esplosiva del suo mito.

Oggi Fiamma Nirenstein è deputato del Popolo della Libertà, Vice-presidente della Commissione Affari Esteri e Comunitari della Camera, docente alla Luiss di Roma, autrice di una decina di libri, opinionista di Panorama e Il Giornale, giornalista pluripremiata.

Quanto tempo hai vissuto a Gerusalemme?

Circa 15 anni, nel quartiere di Gilo, in piena stagione di attentati suicidi. In totale, più di vent’anni.

Quando hai deciso di dedicarle un libro?

Gerusalemme è l’inconscio stesso del mondo ebraico, quale esso sia, religioso, laico, sefardita, ashkenazita… Ho sempre voluto scriverci su. Confesso che all’inizio non mi piaceva affatto. Oggi amo la sua interezza, il suo cotè bohemien e la parte ebraica della città, quartieri come Mahanè Yehuda, Mishkenot Sha’ananim, Ohel Moshe… Il centro è così vivo e io sono sempre più incantata da questa città che era in rovina e che è rinata, bella, pulita, piena di fiori, restaurata… Oggi Gerusalemme è la città di tutti, chiunque può pregarci in sicurezza, ebrei, musulmani, cristiani. Vi sembra poco? La gente non sa non sempre è stato così: ad esempio che dal 1948 al 1967, sotto l’occupazione giordana, gli ebrei furono cacciati da Gerusalemme, gente che viveva qui da secoli. La presenza ebraica garantisce libertà religiosa per tutti, anche se, personalmente, credo sarebbe utile ci fosse più autonomia locale.

Gerusalemme sarà sempre una polveriera?

Spero proprio di no anche se, in un certo senso, lo è sempre stata. Gerusalemme è importante perché è la culla del monoteismo morale, quell’intuizione tutta ebraica che c’è un Dio personale che è dentro di noi, senza re o papi fuori di noi da cui dipendere. Questa è la grande invenzione dell’ebraismo. E tutti vogliono Gerusalemme in virtù del fatto che proprio qui si struttura l’idea del Dio unico. Da qui, storicamente, gli ebrei non se ne sono mai andati, sono sempre rimasti, in una continuità millenaria che nessuno vuole riconoscere (al tempo dei turchi vi vivevano 28.110 ebrei, 8.750 cristiani, 8.560 musulmani). È sempre stata ebraica nel senso degli abitanti che ci vivevano. E io non condivido affatto il punto di vista universalistico di alcuni storici (come Amos Elon) per cui Gerusalemme è di tutti.

Nel tuo libro scrivi che esaltare la diaspora, mitizzarla come avventura multiculturale, sia un errore catastrofico. Che cosa intendi?

Penso che mitizzare la figura dell’ebreo errante abbia fatto molto male all’ebraismo. Non amo questa idea romantica, ovvero quella che più sei tormentato, più sei interiormente nomade e scisso, più sei autenticamente ebreo; al contrario, così diventi gli altri, ti azzeri e ti trasformi in Zelig. Piuttosto sono a favore di un’idea identitaria dell’ebreo-ebreo, che ha le sue tradizioni, la sua vita ebraica e che a partire dal suo portato identitario va verso gli altri.

Veniamo all’attualità di Israele: come vedi la spaccatura tra laici-religiosi nazionalisti da una parte e haredim dall’altra?

Io nutro una grande ammirazione per il mondo haredì: senza gli haredim-chassidim l’ebraismo non si sarebbe salvato dall’Olocausto, è dalla loro ostinazione e dalla loro fede, da quel loro cercare un lulav per Sukkot in piena Treblinka, ridotti pelle e ossa, è da questo che è dipesa la sopravvivenza dell’ebraismo. In Israele gli haredim sono il 10 per cento, una percentuale troppo bassa per poter parlare di spaccatura nel tessuto sociale. Anche se ci sono aspetti che non sopporto, ad esempio la politica contro le donne e il problema della loro diseguaglianza, non trovo nulla da eccepire al fatto che esistano degli ortodossi, fatta salva la libertà reciproca e individuale. In Italia, nessuno trova nulla da ridire quando folle di suore o preti si assembrano in Piazza San Pietro.

Si dice che il conflitto con l’Iran sia inevitabile, il paese degli ayatollah non può  possedere l’atomica. Tu che ne pensi?

No, non credo che il conflitto sia ineluttabile. Ma resta il fatto che un mondo con Iran nucleare non ci può stare, terrebbe in ostaggio il pianeta intero. Se avranno l’atomica la vorranno tutti, dall’Arabia Saudita all’Egitto a allora davvero l’area sarà una polveriera. Le parole di Ahmadinejad parlano chiaro: “Israele è un albero marcito che deve essere distrutto e spazzato via”, dice. Come fa Israele a permettere che chi parla così porti a termine un programma atomico? Senza contare che l’Iran si sta dotando di un sistema balistico notevole, con missili che potrebbero arrivare a Roma, e di cui rifornisce regolarmente Hezbollah; e che è diventato grande amico di Assad e della Siria. È finito il tempo in cui «tutte le opzioni sono sul tavolo», come ha detto Obama, cosa ribadita un mese fa alla conferenza dell’Aipac, American Israel Public Affairs Committee, a Washington.

E la politica di Obama verso Israele?

Andando all’Aipac, la mia sensazione è stata netta: sarà lui il prossimo presidente Usa, di nuovo. Perciò Obama, di fronte a una platea di 13 mila persone e agli elettori ebrei, ha assicurato di avere a cuore Israele, di essere fedele più di ogni altro presidente al patto non scritto fra lo Stato ebraico e gli Usa, di avere difeso lo Stato ebraico all’Onu, di averlo sempre aiutato militarmente. Obama ha aggiunto che con l’Iran tutto è possibile, che bisogna parlare tenendo in mano un grande bastone. Se intenda usarlo, non l’ha promesso ma ha rivendicato la sua totale, indiscutibile devozione all’amicizia fra Israele e gli Usa. Questo è comunque il tempo delle decisioni, come ha ribadito Netanyahu: «Non lascerò mai che il mio popolo viva sotto la minaccia dell’annichilimento, il nostro destino deve restare interamente nelle mani del nostro popolo, siamo padroni della nostra vita che abbiamo diritto di difendere».

La Chiesa, il Vaticano, Israele…

Malgrado il grande lavoro fatto da Wojtila, indubbiamente oggi sono stati fatti dei passi indietro. La Chiesa deve superare la propria difficoltà ad aver paura degli arabi. Per questo mantiene un atteggiamento di prudenza. Mentre aumentano l’aggressività e le stragi dei cristiani, la Chiesa è troppo poco assertiva, dice poco ed è quasi afasica.