Edith Bruck e la Shoah: un viaggio nella sofferenza, alla ricerca di umanità

Eventi

di Giovanni Panzeri

“..la metà di noi morì sulla strada, le persone cadevano e via. Le guardie ci dicevano che se non potevamo più camminare ci avrebbero portato in ospedale, hanno alzato la mano quattro  sorelle e loro le hanno ammazzate. Da quel momento abbiamo capito che o muori o cammini. O muori di freddo, fame o malattia, o cammini. Non c’era altra via d’uscita…”.

In questo modo la scrittrice e regista Edith Bruck, una delle ultime testimoni sopravvissute ai campi di sterminio nazisti, ha descritto la tristemente famosa “marcia della morte” tra Bergen Belsen e Christianstadt.

Martedì 24 gennaio, a quasi ottant’anni dalla Shoah, ha infatti reso ancora una volta la propria testimonianza sulla deportazione e il genocidio del popolo ebraico, davanti a delegazioni di giovani e studenti in rappresentanza di tutte le regioni italiane, nel contesto di un’intervista organizzata dalla Fondazione Museo della Shoah e disponibile sul loro canale YouTube. (QUI il link)

 

L’incontro si è aperto con l’intervento della professoressa Sandra Nicolosi, che ha descritto la situazione politica ed economica dell’Ungheria, il paese natale di Edith Bruck ma anche il primo paese in Europa a promulgare leggi razziali contro gli ebrei. È poi seguita la presentazione della stessa intervistata da parte del presidente della Fondazione, Mario Venezia. Verso la fine dell’incontro è inoltre intervenuto il Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara.

 

Una società travolta dall’odio

“…vivevamo in un poverissimo villaggio di contadini e gli ultimi anni prima della deportazione, dal ’42 al ’44, erano diventati invivibili. Non solo per la miseria ma anche per l’odio, la propaganda nazifascista aveva infettato quasi tutte le persone, rivolgendole contro la piccola comunità ebraica. Le offese, le bestemmie… persino i compagni di scuola, con cui avevi sempre giocato, dormito o mangiato, da un giorno all’altro non ti salutavano più –  ricorda Edith Bruck, – ci sputavano addosso, ruppero la testa a mio fratello. Si sentivano onnipotenti verso di noi”.

La scrittrice, che all’epoca aveva 13 anni, ha descritto poi la terribile notte in cui lei e la sua famiglia vennero prelevati a forza, per essere portati prima nel ghetto, poi ad Auschwitz.

E ricorda l’umiliazione del padre, che aveva mostrato le medaglie conquistate in guerra nel tentativo disperato di salvare la propria famiglia: “questo fascista del nostro stesso villaggio, che fa ancora più male, le prese, le pestò per terra e tirò uno schiaffo a mio padre, urlandogli addosso che non valevano più niente, né quelle né la sua vita. (…) è importante ricordare che i primi tedeschi li abbiamo visti nel ghetto, a strapparci da casa non sono stati i tedeschi, ma gli ungheresi.”

 

La vita nei campi e le poche ombre di pietà

“ Arrivati ad Auschwitz ci sbatterono giù dal vagone, urlando, costringendoci a formare file a destra e a sinistra. Era tutto molto veloce, organizzato a tavolino. Io finii a sinistra con mia madre, aggrappata a lei, mentre mio padre e mio fratello li persi subito di vista. Un tedesco si è chinato su di me e, forse per non farsi sentire dagli altri, mi continuava a sussurrare ‘vai a destra’. Mia madre iniziò a pregarlo in ginocchio di non toglierle l’ultima figlia, e lui la colpì in faccia con il calcio del fucile. E voleva salvarmi…” La fila di sinistra era quella destinata alla camera a gas, la destra ai lavori forzati.

 

Edith Bruck continua poi descrivendo la vita di stenti nei campi,  la brutalità delle guardie dei lager, i deportati che si suicidavano sul filo spinato, la marcia della morte, il lavoro per rimuovere cumuli di cadaveri, fino alla liberazione.

 

Tuttavia gli elementi che più emergono dal suo racconto terribile sono quelle che chiama le “sue luci”, pochi momenti in cui un’ombra di umanità nei suoi carnefici le ha permesso di sopravvivere, fisicamente ma soprattutto psicologicamente.

Ombre di umanità che vanno dall’azione del soldato all’entrata di Auschwitz, al sentirsi chiedere “Come ti chiami?”, ai pochi rimasugli di marmellata in una gavetta da pulire, al “regalo” di un singolo guanto bucato.

 

Pochi momenti che potevano fare la differenza tra la vita e la morte per un deportato, ma che oggi forse fanno emergere in modo ancora più evidente la disperazione, il dolore e la crudeltà di quei giorni, in cui anche un banalissimo gesto umano non poteva che essere considerato un miracolo, rispetto a immagini e storie di massacri, a cui molti di noi sembrano ormai quasi indifferenti.

 

Una storia con cui non abbiamo mai realmente fatto i conti

Edith Bruck ha infine concluso rispondendo alle domande degli studenti e ricordando che “l’antisemitismo non è mai realmente stato sradicato, dopo la guerra, con l’eccezione in qualche modo della Germania, gli Stati non hanno fatto realmente i conti con il proprio passato. In Italia si è voluto favorire la riconciliazione, come se non fosse successo niente. In Ungheria si chiudevano le orecchie, non volevano sapere, dicevano ‘abbiamo sofferto anche noi’…non per niente oggi siamo arrivati ad avere manifestazioni fasciste e gente che passeggia per strada con le croci uncinate mentre, anche grazie ad una politica che non ha più valori e non è più degna di fiducia, la destra vince in tutta Europa”.