di Riccardo Sorani
Sperimentazione ed eclettismo. Una mostra racconta l’ultimo re della Bohème milanese, dal 1961 al 2004: un viaggio nei colori (e sculture) di un artista fuori dagli schemi. Un autodidatta che amava il digitale
Mi piace pensare a Stanley Tomshinsky come l’ultimo Bezalel del 20° secolo. Il leggendario Bezalel che tutti conoscono, fu il realizzatore del Mishkan, l’artista ispirato direttamente da Dio, e dunque secondo la Kabbalah, dotato della capacità di comprendere l’architettura dell’universo grazie alla disposizione delle lettere e dei numeri. Tra l’artista biblico per eccellenza e il poco conosciuto Tomshinsky, i punti in comune sono assai molteplici: entrambi lavoratori del metallo, ma soprattutto entrambi in diretto contatto con il divino, l’uno per volontà stessa dell’Altissimo, l’altro per aver posto al centro della propria ricerca artistica la molteplice relazione tra quest’ultimo, l’uomo e le sue leggi universali. Ebreo di nascita, nato in America, poi milanese d’adozione (New York 1935, Milano 2004), Stan Tomshinsky si occupò, negli anni di attività, di strutture lineari e tridimensionali, movimento e linee di forza, elaborazione di codici numerici, simbolismo astratto e metafisica, filosofia Zen, forma del DNA e Teoria del Caos, attraversando il difficile passaggio dalla scultura alla pittura, dal concettuale all’analogico, approdando negli anni Ottanta e Novanta alla produzione di figure e paesaggi sognanti (fu tra i primissimi ad occuparsene), accanto alla creazione di video e lavori generati al computer.
L’opera di Tomshinsky è sempre stata portatrice di un’intrinseca saggezza figlia di un’assidua e variegata ricerca dell’universale – caso raro nella storia dell’arte e prerogativa dei grandi (Picasso su tutti, Chagall o Leonardo da Vinci). Perfettamente cosciente del proprio percorso, a tal punto da essere minuziosamente descritto a margine delle opere, egli stesso amava definirsi un ricercatore-artistico. Ma era l’inconscio, e forse una “speciale” fonte d’ispirazione a dettarne le motivazioni. Per scoprire l’arte simbolica, quasi magica, di quest’artista credo sia d’obbligo una visita alla grande retrospettiva “Tomshinsky a Villa Jucker” in corso presso la LIUC – Università Cattaneo di Castellanza (aperta fino all’autunno 2015), dove sono esposte una sessantina di opere, mostra curata da Miro Silvera e Flavio Cruciatti.
Nato nel 1935 da genitori lituani, una laurea in giornalismo, alla fine degli Anni Cinquanta lascia gli States e parte alla scoperta dell’Europa. L’origine stessa della vocazione artistica fu del tutto casuale: in un bar di Parigi, dove si era trasferito nel 1960, uno scultore che stava ultimando una testa in plastilina gliene porge una manciata, invitandolo a ultimarla. L’esito fu felice, quasi stupefacente. Seguì a breve l’acquisto di un pacchetto di argilla senza prevedere che la strada oramai era segnata. Da qui l’influenza della casualità e la necessità della sua accettazione hanno sempre segnato la sua arte, così come il suo stile di vita da ultimo bohemien. «In un negozietto di rue de Seine, a Parigi, acquista il primo pacchetto d’argilla sintetica; ma sono il rame, il ferro e la saldatura a interessarlo davvero, i mezzi attraverso i quali darà vita a sculture filiformi, astratte e surreali. Totem, figure, creature mitologiche, diventano l’espressione simbolica dei temi cari alla ricerca filosofica e spirituale di Tomshinsky: Dio, l’uomo e l’universo», racconta Flavio Cruciatti, curatore della mostra, amico personale dell’artista.
I quasi quarant’anni di vita trascorsi a Milano, sua città ideale, si snodarono a Brera tra lo studio di Via Fiori Chiari e la minuscola dimora di proprietà delle sorelle Pirovini, il cui ristorante era frequentato tra gli altri dagli amici-artisti Dova, Migneco, Crippa e Kodra. Poco seguito dal mercato, ma moltissimo da tutti gli altri artisti, scambiava e barattava le proprie opere per pagarsi i pasti, il computer, il riscaldamento.
In un breve scritto autobiografico “On the Way”, Tomshinsky ci racconta l’evoluzione della sua arte. Nei primi mesi parigini, fece molta sperimentazione e la sua ricerca iniziò a perfezionarsi: l’intento era di andare sotto la superficie delle cose e le strutture filiformi, che dovevano servire da supporto per le sue sculture d’argilla, presto divennero esse stesse opere-totem in continua evoluzione tra l’astratto e il surreale, oggetti portatori di altri significati.
«Ha studiato da autodidatta la matematica, le strutture molecolari e biologiche della vita, il colore e le simbologie universali, le forme archetipiche che definiscono l’esistenza umana, integrate tra loro in una ricerca che, di fatto, costituisce la base del suo percorso esistenziale.Nella metà degli anni ‘70 viaggiava ancora e faceva mostre a Milano, Vienna, Parigi, Dusseldorf, Zurigo, Bruxelles, Londra, Roma e Torino, iniziando in quel periodo a fare della
pittura ad olio: molto sensibili le stesure della materia pittorica in quel tempo. La sua ricerca era indirizzata prevalentemente all’astratto lirico con alcuni lavori riconducibili ad una stilizzata figuratività», scrivono Flavio Cruciatti e Miro Silvera, altro curatore della mostra alla LIUC di Castellanza.
Nel 1969, i postumi di un attacco di epatite lo privarono dell’energia necessaria per continuare a cimentarsi con la scultura e così – ancora una volta il caso – iniziò la sperimentazione pittorica: riportare su tela ciò che erano state le sue sculture, struttura e movimento delle cose. Ci avevano già pensato i Futuristi sessant’anni prima a parlare di linee di forza e rappresentazione simultanea del movimento su tela, ma la novità di Tomshinsky risiedeva nel voler rappresentare quelle forze sottili e invisibili passando, per dirla con le sue parole, “dal classico al quantum”. «Nelle mie sculture che io chiamo “astrazione simbolica”, il segno astratto, congiunto al movimento lineare, crea il simbolo e cioè l’astrazione dell’Idea. La chiave dell’astrazione è nei segni e nel loro movimento. L’astrazione si manifesta nell’universo in tutta la sua entità», afferma Tomshinsky.
Il Caso bussa di nuovo alla sua porta, ancora una volta una nuova via da percorrere. Nel 1989, un giovane studente suo vicino di casa gli mostrò un programma di disegno sul suo computer. In quel momento Tomshinski capisce che è il computer la vera rivoluzione e che sarebbe divenuto lo strumento eccellente per realizzare una nuova serie di opere grafiche. Non a caso fu tra i primi ad avere una connessione Internet ed un sito per mostrare le proprie opere.
Morto nel 2004, colpito da una malattia inattesa, furono solo in trenta a raggrupparsi per Stanley, nel piovoso funerale a Musocco: troppo pochi per un uomo che ha avuto la capacità di sintetizzare nelle sue opere la grande storia dell’arte del XX°secolo e anticipare quella del XXI°.