di Silvia Vegetti Finzi
«Dipingo come addormentato, in sogno». Così si esprime Marc Chagall analizzando il proprio procedimento pittorico. Nei suoi quadri convivono i contrari, e le contraddizioni. Nella sua notte brillano il sole e la luna, la vacca è un agnello, il maschile è anche femminile, la sposa è bifronte, gli amanti si separano restando uniti, gli occhi sono aperti e chiusi, ebraismo e cristianesimo si fondono, morti e vivi convivono in un’accoglienza illimitata dell’Essere e del Nulla. Come è noto, Chagall è figlio dell’immaginazione chassidica, non guarda la realtà di ogni giorno ma ama vedere da lontano, dall’alto di un pianeta raggiunto con l’astronave della fantasia, dove la paura viene esorcizzata dall’immediatezza dei sensi, dal piacere di esistere nonostante il dolore, dalla possibilità di godere offerta dal presente. «L’Ebreo è per la gioia e la gioia è per l’ebreo», scriveva Sigmund Freud alla fidanzata Martha il cui nonno, rabbino capo della comunità di Amburgo, sosteneva che “L’ebreo è fatto per il godimento”. Chagall simbolizza quella felicità semplice e immediata nel violino, nel muso dolce della giumenta, nel volo degli uccelli, nell’abbraccio degli sposi, nel colore dei frutti, nella luce dei fiori. Solo le persecuzioni metteranno in crisi quel mondo ideale. Scrive infatti nel 1938: «Devo dipingere la terra, il cielo, ciò che porto nel cuore, la città in fiamme, la gente in fuga, i miei occhi pieni di lacrime».
I termini “sognare” e “sopravvivere” sono strettamente collegati nell’Ostjudentum, il mondo delle piccole comunità ebraiche dell’Europa Orientale, di tradizione mistica. Su quello sfondo si può comprendere, ad esempio, la funzione salvifica attribuita da Freud e Chagall al sogno e all’immaginazione.
Il padre di Freud, figlio di un rabbino chassidico, proveniva dalla Galizia, mentre i genitori di Chagall risiedevano da generazioni in Bielorussia. Sotto la costante minaccia di pogrom, esosi balzelli ed editti arbitrari, gli shtetl, com’è noto, vedevano costantemente messa a rischio la sopravvivenza. In quel clima di precarietà, ricordare la propria storia, affermare la propria identità, non abiurare la fede dei padri costituiva un impegno che animava ogni minimo gesto, infondendo un’aura di sacralità alla modesta vita quotidiana. Sarà proprio quella precarietà ad attivare processi psichici destinati a plasmare la mentalità e la cultura moderna. E allora viene da chiedersi se è possibile, come suggerisce Walter Benjamin, attingere alle risorse ermeneutiche del misticismo chassidico per decifrare i segni della contemporaneità. La risposta è sì. L’opera di Marc Chagall, la più prossima al pensiero di Freud, è tra le più fedeli alla scenografia del teatro psicoanalitico. L’anarchia apparente dei quadri non può non essere letta, come la pagina di un libro: dall’alto al basso, da sinistra a destra. Ma sarebbe riduttivo imprigionarlo nella sola dimensione del sogno perché Chagall è anche nella realtà, nell’autobiografia e nella storia. Viene intuitivo capire se un suo quadro è stato dipinto negli anni trascorsi a San Pietroburgo, oppure in Germania, in Francia o negli Stati Uniti, prima o dopo la guerra. Nella nostra esperienza, i pensieri del sonno differiscono da quelli della veglia per il disordine cognitivo ed emotivo che li contraddistingue. Nella tradizione chassidica invece questa antinomia non esiste e la contrapposizione tra la notte e il giorno lascia il posto a una dimensione intermedia in cui l’immaginazione non teme di utilizzare l’assurdo per dire l’indicibile. Il gallo di Chagall canta nella notte più nera e lo splendore dei fiori provenzali si affianca al remoto villaggio russo, impastato di freddo e di fango.
Mentre la cultura occidentale considera la fantasia come qualcosa di infantile e superfluo, una illusione destinata a sparire a contatto con la realtà materiale, per la mistica ebraica si tratta di una facoltà performativa, creativa, divina. Nel tempio dell’immaginario mistico, il mondo si estende in una dimensione intermedia tra il dentro e il fuori, tra la realtà psichica e la realtà oggettiva. Per Freud i sogni sono tentativi, non sempre riusciti, di esaudire i nostri desideri e la fantasia svolge una funzione di riparazione in quanto permette di cicatrizzare le ferite della vita e esaudire mentalmente i desideri che ci sono interdetti realmente. In quanto conforto e rimedio, la fantasia viene suscitata e alimentata dal dolore, dalle frustrazioni e dalle delusioni dell’esistenza. Se questa è la sua funzione, si capisce come fosse sollecitata e ravvivata dalle misere condizioni sociali e dalle tensioni psichiche che affliggevano gli Ebrei orientali.
Descrivendo quelle comunità, scrive Henri F. Ellenberger: “Il tratto principale era la paura, paura dei genitori, degli insegnanti, dei mariti, dei rabbini, di Dio e soprattutto dei gentili”. Alla miseria del mondo reale corrisponde una ipertrofia del mondo mentale. Tutti gli uomini fantasticano ma l’ebreo abita l’immaginazione, ne fa la sua dimora e la utilizza, come ci dice Freud nel Motto di spirito, per esprimere impulsi erotici e aggressivi che, mediati dall’ironia e dall’assurdo, potrebbero incrinare la coesione della comunità e la sicurezza personale. Fragile e forte lo schermo della fantasia si erge come un baluardo contro l’ingiustizia e la violenza assicurandoci che, anche quando tutto sembra perduto, è possibile sopravvivere all’annientamento collocandoci “altrove”, in un altro luogo, nel cuore segreto dell’umanità.