I “Semi” di Flora Deborah a Roma nello spazio di Gaggenau DesignElementi

Arte

Gaggenau DesignElementi
Fino al 31 ottobre 2022

La mostra “Semi” è il racconto della favola gotico-contemporanea di Flora Deborah e del suo lungo viaggio alla ricerca del senso più profondo dell’esistere. Il bellissimo appartamento che ospita lo showroom Gaggenau DesignElementi nel cuore di Roma è l’ideale scenario domestico per la narrazione di questo percorso, in cui il pubblico gioca un ruolo talmente forte da intendere“Semi” quale esperienza performativa oltre che installativa: ogni spettatore è infatti chiamato a partecipare e lasciare un segno a quello che potrebbe essere definito come un corale viaggio di iniziazione che porta alla costruzione di una nuova Torre di Babele. Il viaggio di Flora Deborah è, come in tutte le favole, lungo e travagliato, ma caratterizzato dall’ottimismo dell’andare avanti con infinita resilienza. L’artista arriva infatti a Roma per la sua prima monografica in Italia dopo anni difficili: prima della pandemia, da poco trasferitasi da Londra a Tel Aviv, viene colpita dalla malattia di Lyme, contro la quale tuttora combatte. Oltre ad averla debilitata, questo batterio (derivante dal morso di una zecca) riesce a infiltrarsi all’interno della corteccia cerebrale causando continui incubi e visioni, che ogni giorno l’artista trasforma in disegni su carta, terapeutici ma anche preparatori rispetto alla produzione artistica.

 

La favola di Flora è composta sempre più da immagini in bilico tra sogno e realtà, nate da un processo creativo che non prevede mai correzioni, ma che vede proprio nelle imprecisioni o nei ripensamenti del gesto una metafora delle alterne vicende umane: non si torna mai indietro, non c’è gomma, ma si va avanti portando nuova materia all’interno del proprio percorso. Nelle opere finali (principalmente in ceramica e bronzo) l’artista finisce così sempre per sublimare e sintetizzare lo straordinario lungo viaggio che è l’esistenza umana, perché tutto nella nostra vita può essere il seme di un nuovo frutto, a patto che si riesca anche dolorosamente a raggiungere una piena consapevolezza di sé.

Il lungo pellegrinaggio porta l’artista da prima a Londra, dove nel 2014, al fine di comporre e conservare una propria memoria tangibile, chiede a tutti i suoi familiari di mandarle una pietra dei luoghi, sparsi nel mondo, in cui abitano. Nel 2016, la ricerca delle proprie origini porta Flora a trasferirsi in Israele e a visitare i luoghi in cui si sono incontrati i genitori (in particolare il Kibbutz Baram in Galilea). Convinta in queste terre di poter comprendere e riappropriarsi delle proprie origini, realizza nel 2017 una grande videoinstallazione in cui assembla la terra (cruda) del luogo, da lei stessa prelevata, con un video che documenta lo scavo. Come la stessa artista racconta, scavare quell’enorme buca fu un gesto catartico di maturazione, che le permise di comprendere come fosse necessario andare ancora più in profondità per comprendere chi fosse e chi volesse essere veramente.

Più recentemente, in una delle tormentate notti di malattia, l’artista ha un’intuizione e comincia a riflettere su come in realtà non siano i luoghi a determinare chi siamo, bensì il linguaggio che impieghiamo per parlare e pensare: ogni essere umano costruisce lungo tutta la sua esistenza, per stratificazione, un proprio unico e specifico lessico. Attraverso questo idioma ciascuno di noi decodifica, comprende e rappresenta la realtà che lo circonda. Se perciò il nostro linguaggio modella il nostro cervello, le convinzioni e persino il nostro agire, siamo tutti condannati dopo la caduta di Babele a parlare lingue diverse senza alcuna possibilità di comprensione reciproca? L’artista, per darsi una risposta, mette in moto un percorso di profonda autoanalisi, ripercorrendo le tante lingue parlate nella sua famiglia: turco (sua madre), francese (suo padre), yiddish (nonna paterna), spagnolo (nonno paterno), giudeo-spagnolo (nonni materni). Come spesso capita nel suo approccio all’arte, Flora parte dalla realtà e dalla materia per comprendere concetti astratti e al fine di rappresentare il ruolo dell’idioma parte dallo studio anatomico della propria lingua.

(dal testo critico di Sabino Maria Frassà)

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