L’ebreo errante: un mito letterario antisemita ribaltato da tre scrittori, A. B. Yehoshua, Orly Castel-Bloom, Jonathan Littell

Libri

di Cyril Aslanov

[Ebraica. Letteratura come vita] Al primo sguardo niente è meno ebraico della leggenda di Assuero (deformazione di Ahashverosh, nome di Serse o Artaserse nel libro di Ester). Questa leggenda narra di un ebreo chiamato con un nome persiano che è condannato a vivere eternamente per testimoniare la passione di Gesù alla quale avrebbe assistito. Questo mito ha alimentato fantasmi antisemiti in tutta l’Europa cristiana e particolarmente in Germania dove l’ebreo errante Assuero è chiamato der ewige Jude “l’eterno ebreo”. In un modo abbastanza sorprendente questo mito dove si riflettono pregiudizi antisemiti su una pretesa maledizione che avrebbe colpito un popolo condannato per non avere accettato il messaggio cristiano, ha trovato una cassa di risonanza in due scrittori israeliani che l’hanno ripreso, sgombrandolo di tutti i suoi presupposti cristiani.

Il primo è Abraham B. Yehoshua (1936-2022) che nel 1957, quando era un giovanotto di 21 anni che aveva appena terminato il servizio militare, scrisse il racconto fantastico Mot ha-zaqen (La morte del vecchio nella traduzione italiana di Emanuela Trevisan Semi, pubblicato da Giuntina nel 1989). Questa allegoria di 10 pagine descrive un uomo longevo che non riesce a morire fino a che gli inquilini del quartiere, che non possono più sopportare la sua presenza, lo seppelliscono vivo. Questo apologo macabro ispirò una delle numerose necrologie scritte dopo la morte dell’autore il 14 giugno 2022 all’età di 85 anni.

Nella sua saga familiare intitolata Il signor Mani, pubblicata nel 1990 (1994 in traduzione italiana) Yehoshua traspose la longevità dalla dimensione individuale a quella transgenerazionale quando scrive la storia della famiglia Mani in cinque dialoghi (anzi monologhi) fra 1848 e 1982, cominciando dal dialogo più recente per risalire nella galleria del tempo fino al più antico che ha luogo in una taverna di Atene.

In questo contesto sefardita greco compare la figura di una certa Flora Molkho (in Haddaia) che ispirò a Orly Castel-Bloom la figura di Flora Benvenisti, vecchia di 203 anni, nata a Creta nel 1792, nel suo romanzo Ha-Mina Liza, pubblicato nel 1995. In questo romanzo fantastico, Castel-Bloom ha creato un’equivalente femminile del vecchio immortale di Mot ha-zaqen, facendo l’occhiolino a Yehoshua quando ha chiamato la sua vecchia col nome di una protagonista di Mar Mani. L’allusione è resa ancora più evidente grazie alla scelta di Creta come luogo di nascita di Flora Benvenisti, l’isola greca essendo il luogo del secondo dialogo (monologo) sceneggiato a Candia (Heraklion) nel 1944.

Un altro esempio dell’affioramento del motivo dell’ebreo eterno o errante in un libro scritto da un ebreo si trova nel romanzo Le Benevole di Jonathan Littell (2006; 2007 in traduzione italiana) dove la SS Maximilian Aue incontra un ebreo del Caucaso chiamato Nahum ben Ibrahim che è così anziano da parlare in greco antico con il protagonista principale. Il quale finisce per ammazzare questa figura dell’ebreo eterno.

Come mai è stata possibile questa adozione di un tema della cultura antigiudaica cristiana in libri scritti da ebrei? La chiave di questo paradosso si deve cercare probabilmente nell’estrema libertà che caratterizza sia l’opera di A. B. Yehoshua sia quella di Orly Castel-Bloom o di Jonathan Littell.

Questi autori, che non sono limitati da nessun tabù, si sono permessi di riprendere l’involucro esterno di un tema dell’antigiudaismo cristiano tradizionale, spogliandolo dalle sue implicazioni originali. Del resto non è sicuro che il giovane A. B. Yehoshua abbia avuto un’intenzione particolare nel trattare il tema dell’impossibilità di morire. Certo molti esegeti della sua opera hanno cercato un significato particolare in questa fiaba (tra gli altri Emanuela Trevisan Semi nel suo saggio Morte del senso e senso della morte nel primo racconto di A. B. Yehoshua pubblicato con la traduzione del racconto menzionata sopra). Ma è anche possibile che il giovane Buli (era il suo soprannome) appena liberato dall’impegno militare (aveva anzi partecipato all’operazione Kadesh del 1956 in qualità di paracadutista) abbia voluto scrivere qualcosa di parossistico e di iperbolico come ci si può aspettare da un giovane pieno di vita e di energia.

Per quanto riguarda Orly Castel-Bloom, la fusione che fece fra il Vecchio di Mot ha-zaqen e la figura di Flora Molkho diventata Flora Benvenisti si può spiegare come un giuoco intertestuale dove la relazione al mitologumeno antigiudaico è mediatizzata da A. B. Yehoshua. Infatti, non è neanche sicuro che la petulante scrittrice telaviviana abbia pensato all’origine di questo tema cagliostriano. Volle innanzitutto far dialogare il suo romanzo Ha-Mina Liza con La Morte del Vecchio e Il signor Mani ed è possibile riconoscere un’intenzione parodica nei confronti di un autore già coronato di gloria al momento in cui Castel-Bloom pubblicò i suoi primi saggi letterari (nel 1987 per essere esatti).

Invece, da Jonathan Littell, il riutilizzo del tema dell’ebreo errante (ebreo eterno) in un testo che cerca di entrare nella coscienza di una SS non è affatto innocente e partecipa della volontà di ricostruire le reti di associazioni di idee che potevano attraversare la mente di un aguzzino tedesco (un aguzzino abbastanza colto in questo caso) al tempo della Shoah.

Fra il riciclo innocente che un giovane sabra fa di un tema di origine antisemita e l’uso molto più connotato dello stesso tema da un ebreo diasporico che ha cercato di capire la mostruosità nazista dall’interno, c’è tutta la differenza che separa Israele, paese nuovo che porta uno sguardo distaccato sul passato diasporico, dalla scrittura ebraica diasporica dove tutto è molto più connotato e teso.

 

 

 

(Foto in alto: Hieronymus Bosch, Cammino del Figlio Prodigo)