Al Museo Nahon di Gerusalemme la mostra sugli stemmi delle famiglie ebraiche italiane

Arte

di Ilaria Ester Ramazzotti
Cose di famiglia. Stemmi delle famiglie ebraiche italiane’ è il titolo della mostra attualmente esposta al Museo Umberto Nahon di arte ebraica italiana di Gerusalemme. Un affascinante viaggio attraverso i secoli che porta il visitatore a conoscere l’usanza di alcune influenti famiglie ebraiche italiane di dotarsi di uno stemma famigliare. Simboli visibili di storia e identità, questi stemmi familiari parlano anche del contesto sociale e culturale che li ha forgiati. La mostra mette altresì sotto le luci la peculiare storia ebraica degli oggetti che li riportano o che li omettono e delle famiglie che li hanno creati, posseduti o donati. 

Il curatore Daniel Niv illustra ai lettori di Mosaico i contenuti della mostra, sottolineando in primis l’importanza del simbolo: “Siamo circondati da simboli. Migliaia di insegne, loghi commerciali e immagini ci circondano ogni giorno. Il solo fatto di vedere il logo di un’azienda automobilistica o di un marchio di moda evoca in noi sentimenti forti e pensieri risoluti sul prodotto che questo simbolo rappresenta – introduce Niv -. Questi simboli modellano anche le nostre opinioni sulla persona che li detiene e hanno uno straordinario potere di trasmettere a chi li osserva, in pochi secondi e senza parole, messaggi chiari e precisi: appartenenza nazionale, identità di genere o sessuale, status sociale ed economico. Oggi siamo persino riusciti a ridurre i nostri sentimenti, pensieri e desideri a un intero linguaggio pieno di simboli: le emoji”.

Anche nel mondo ebraico il ruolo dei simboli non è assente: li ritroviamo nell’arte ebraica dalla sua nascita fino ai giorni nostri. In particolare, “tra gli ebrei d’Italia si è sviluppata un’usanza piuttosto unica: l’adozione di stemmi familiari. Le ragioni e le condizioni che hanno portato allo sviluppo di questa speciale usanza sono molte”, spiega ancora il curatore. “Sebbene il fenomeno non sia esclusivo degli ebrei italiani, non c’è dubbio che la sua incidenza tra gli ebrei italiani superi quella di altre comunità ebraiche”. A parlarne sono i numeri: sono documentate circa 250 famiglie ebraiche italiane con almeno uno stemma familiare. Una cifra che può solo suggerire l’importanza degli stemmi familiari per coloro che li detenevano. La mostra ‘Cose di famiglia’ offre uno sguardo su alcune delle caratteristiche più singolari di questo fenomeno, nonché su alcune delle sue implicazioni culturali. Attraverso l’osservazione non solo dei simboli stessi, ma anche del contesto in cui sono stati utilizzati, vengono rivelati i loro significati sociali e culturali. “Un altro aspetto messo sotto le luci di questa mostra riguarda le storie peculiari degli oggetti esposti: diversi reperti sono stati scelti proprio per illuminare alcuni aspetti legati all’uso degli stemmi familiari”. Vediamone alcuni qui di seguito, accompagnati dalle parole del curatore Daniel Niv.

L’anello Bemporad

La famiglia Bemporad (Ben Porat) è più conosciuta come proprietaria della sua casa editrice, ma un altro ramo della famiglia era dedita all’attività bancaria a Firenze e Siena. Il lato della famiglia che si occupava di editoria non ha ma adottato alcun marchio da tipografo o stemma di famiglia, contrariamente ad altri stampatori ebrei nei secoli passati. Il ramo bancario della famiglia ha invece adottato un suo simbolo che può ancora essere visto sugli edifici di due banche a Firenze e Siena. Il nome della famiglia, così come il suo stemma, si basano sulla benedizione di Jacob a suo figlio Josef (Genesi 22:22): una fontana che scorre accanto ad alberi di alto fusto. L’anello esposto in mostra è una copia di quello tramandato fra le generazioni della famiglia Bemporad. 

Membri della famiglia Bemporad con l’anello con lo stemma di famiglia

Il Parochet Olivetti-Montefiore 

Nel 1620, in preparazione al suo matrimonio, la giovane sposa Rachel Olivetti ha realizzato un progetto di ricamo particolarmente intricato e complicato: la decorazione di un ricco parochet, la tenda dell’Aròn ha-Kodesh della Torah, oggi sotto le luci della mostra. Possiamo solo immaginare quante ore deve aver impiegato per ricamare l’immagine di tre pilastri e il testo scritto, oppure le straordinarie decorazioni floreali che ornano il bordo del parochet. Al centro del prezioso tessuto, insieme alle iscrizioni relative al suo scopo e altri motivi ebraici, Rachel Olivetti ha ricamato altresì una poesia in rima sul suo matrimonio con lo sposo prescelto, Yehuda Montefiore. Alla fine del poema, la giovane ha riprodotto gli stemmi della sua famiglia e di quella di suo marito, aggiungendone una descrizione letterale sempre in rima. Lo stemma della famiglia Olivetti è così descritto: “Olivo preda in bocca di colomba, la sua bellezza è vista da una donna”. Il simbolo della discendenza di Giuda è invece illustrato come segue: “Un fiore di giglio nella mano di un leone, un luogo bello e splendido”. Per quanto difficili da trasmettere attraverso la loro traduzione, le ultime due righe sono particolarmente toccanti: molti ebrei in Italia avevano due nomi, uno ebraico e uno italiano. I nomi erano spesso foneticamente simili o erano una traduzione l’uno dell’altro. Il nome italiano di Yehuda era molto probabilmente Leone (basato su Genesi 49: 9), un fatto che non poteva sfuggire a Rachel mentre lavorava al suo ricamo. Quando ha scritto che il leone è splendido e bello da vedere, potrebbe essersi riferita al fatto che anche suo marito lo fosse. È difficile spiegare l’interessante scelta della giovane sposa di ricamare parole così personali su una tenda dell’Aròn ha-Kodesh della Torah. Poiché questi versi non erano molto comuni, è possibile che la tenda fosse destinata a un Beit Midrash o a una sinagoga privati.

Parochet Olivetti Montefiore
Parochet Olivetti Montefiore

 

L’Aròn ha-Kodesh della sinagoga di Mantova

Un magnifico insieme composto da un’Aròn ha-Kodesh e da poltrone onorarie, fatte di legno intagliato e dorato, era stato donato alla Grande Sinagoga di Mantova alla vigilia di Pesach del 1543. Dall’iscrizione su una delle poltrone sembra che il donatore di questo insieme fosse una donna. Si chiamava Consilia Sarah. Era figlia di Shmaya De Pisa e moglie di Yitzhak Norzi (Norsa), tutti di Ferrara. Entrambe le famiglie, che si dedicavano al commercio e alle attività bancarie, erano tra le più in vista di tutto l’ebraismo italiano. Cosilia si era trasferita a Mantova con il marito, probabilmente a causa dell’attività di famiglia, mentre la donazione del prezioso insieme rappresentava il suo ingresso nella locale comunità e il desiderio di farne parte. L’alto status sociale di Consilia Sarah, il suo background familiare e quello di suo marito, le hanno dato la libertà di agire per proprio conto. Doveva considerarsi una rappresentante delle due famiglie: la famiglia Pisa da cui era nata e la famiglia Norsa, in cui si era sposata. Tuttavia, sebbene si sappia molto su entrambe le famiglie, poco sappiamo della stessa Consilia Sarah: la dedica sulla poltrona non ci fornisce molte informazioni e il suo nome appare solo in un’altra fonte storica: il colophon di un machzor. Sappiamo solo che quando la comunità mantovana si è ingrandita ha sentito la necessità di ampliare la sinagoga. Un’imponente e nuovo Aròn ha-Kodesh, anch’esso interamente dorato, ha poi sostituito quello donato da Consilia, che fu a sua volta donato a una comunità poco distante da Mantova, in località Sarmida. Successivamente, negli anni ’50, questo Aròn ha-Kodesh è stato uno dei primi ad essere trasferito in Israele da Umberto Nahon (da cui il Museo di arte ebraica italiana di Gerusalemme prende il nome). Oggi, è uno dei più antichi al mondo e il più antico di Israele. Nei primi anni 2000 è stato sottoposto a un progetto di restauro, che ha rivelato l’iscrizione che porta il nome di Consilia. L’assenza dello stemma della famiglia Norsa (tre teste di moro con un nastro decorato con le icone di luna e stelle) e del simbolo della famiglia Pisa (tre cime montuose con sopra dei fiori che crescono) è certamente interessante nel contesto di questa mostra. La migliore spiegazione è che, nella donazione di un oggetto, l’importanza principale è data all’identità del donatore e non la famiglia a cui appartiene. 

Aron HaKodesh di Mantova

La Sedia di Elia

 

Leggendo l’iscrizione riportata sul retro di questa sedia di Elia, utilizzata nelle cerimonie di circoncisione, sappiamo che l’ebreo ferrarese Moshe Eliyahu Pisa l’ha donata in memoria di suo padre, Issachar Zvi Pisa a metà dell’Ottocento. In quel periodo, esisteva a Ferrara una società con un nome simile che aiutava le famiglie a basso reddito a finanziare le circoncisioni dei propri figli. Ciò indica l’origine di questa sedia. Il donatore, come suo padre prima di lui, era uno dei parnassim della comunità. Anche questa sedia non riporta alcuno stemma di famiglia, ma solo i nomi del donatore e di suo padre. È possibile che la donazione fosse intesa a stabilire lo status del donatore come erede del suo genitore, in qualità di personaggio pubblico. Anche questo caso è coerente con la pratica di non decorare tali oggetti con stemmi famigliari. Lungo il percorso espositivo, la sedia è posizionata accanto all’Aròn ha-Kodesh di Mantova-Sermida. Non è un caso. Sebbene l’Aròn ha-Kodesh del 1543 e la sedia del 1845 siano separati da quasi 300 anni di storia, tra loro vige una vicinanza speciale, quasi familiare. La donatrice dell’Aròn ha-Kodesh alla comunità mantovana si chiamava ‘Pisa’ ed era nata a Ferrara, proprio come Moshe Eliyahu Pisa che tre secoli dopo ha donato la sedia di Elia.

 

Museo Umberto Nahon di arte ebraica italiana

Rechov Hillel 25, Gerusalemme

https://www.moija.org/

https://www.facebook.com/italianjewishmuseum/

Orari di apertura: domenica, martedì, mercoledì, giovedì 10:30 – 16:30

Venerdì, Sabato e lunedì chiuso

Per informazioni e prenotazioni:

events@moija.org

+972 2 580 1145