Il “processo di pace” tra israeliani e palestinesi non ha alcun senso se una delle parti sogna la distruzione dell’avversario

Taccuino

di Paolo Salom

[Voci dal lontano Occidente]

Per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, un Paese europeo ha conosciuto di nuovo le distruzioni e le crudeltà di un conflitto spietato. Nemmeno la dissoluzione della Jugoslavia ha portato – nonostante atrocità e lutti – alla disintegrazione di intere città. In Ucraina è accaduto e pare che questo orrore andrà avanti ancora a lungo. Eppure, quando si ascoltano le notizie al telegiornale, i bombardamenti, i civili uccisi, le fosse comuni: tutto viene elencato con tono monocorde, come se ci fossimo già abituati alla cronaca quotidiana della devastazione.

Le cose cambiano, però, quando è Israele l’oggetto del discorso. Pensate soltanto ai recenti fatti, come la morte della giornalista palestinese Shirin Abu Aqlah a Jenin: l’Anp ha rifiutato un’inchiesta congiunta con Gerusalemme, e fatto sparire il proiettile che ha colpito la poveretta, impedendo nel concreto di stabilire chi abbia sparato quel colpo. Eppure, la “colpevolezza” di Israele è apparsa evidente ovunque, compreso nel lontano Occidente.
I 19 israeliani uccisi nei giorni e nelle settimane precedenti, ragione dell’operazione di Tsahal nella città culla del terrorismo arabo? Una “logica conseguenza delle sofferenze” dei palestinesi, “oppressi” da oltre settant’anni dallo Stato ebraico. Non sono le parole di un militante di Ramallah, né le esagerazioni di un qualche antisemita d’Occidente. A pronunciarle è stato Sven Kuhn von Burgsdorff, il rappresentante dell’Unione Europea presso l’Autorità nazionale palestinese pochi giorni dopo la tragica uccisione della reporter di Al Jazeera. Se un diplomatico non si fa scrupoli ad usare simili termini incendiari (quanto falsi), come possiamo immaginare un futuro differente tra i due popoli?

Insomma, come si può parlare di pace e riconciliazione se si continua a giustificare la violenza assassina? Badate bene: è certo che le incursioni dei soldati israeliani nelle città arabe, il più delle volte di notte, sia causa di paura e sofferenza. Ma quanto è utile stigmatizzare la reazione (legittima) di Tsahal se non si fa nemmeno cenno alle precedenti azioni efferate – uccidere una donna ignara o un passante a coltellate non è e non sarà mai un “atto eroico” – portate a termine dai terroristi in nome di un odio senza fine?

Voi, cari lettori, ormai avrete capito come la penso. Ma lo ripeto per evitare fraintendimenti: il cosiddetto “processo di pace” tra israeliani e palestinesi non ha alcun senso se una delle due parti sogna ancora la distruzione totale dell’avversario. E questa parte non è Israele. Forse in passato c’è stato un momento in cui si è immaginato, a Gerusalemme, che gli arabi palestinesi avrebbero alla fine accettato di vivere in uno Stato ebraico che comunque, negli anni seguenti alla Guerra dei sei giorni e alla liberazione di Giudea e Samaria dall’occupazione giordana, ha elevato il livello e le aspettative di vita di tutti i residenti. Ma da quando il governo di Rabin e Peres, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, ha offerto ai palestinesi un percorso verso l’indipendenza, nonostante rivolte e attentati continui – e una propaganda anti ebraica ossessiva a partire dagli asili infantili per arrivare alle università – nessuno in Israele, non i laburisti ma nemmeno la destra del Likud (o di Yamina), si è mai sognato di dire: ci siamo fidati, vi abbiamo dato un’occasione, ci avete risposto con la violenza: ora basta.

Nessuno, per dire, nonostante i lutti e le atrocità, nonostante i missili sparati sui civili, nonostante l’incessante macchina della menzogna arabo-palestinese, aiutata dagli innumerevoli utili idioti del lontano Occidente, sia costantemente impegnata a diffondere l’odio contro Israele, ha mai reagito – ed eccoci di nuovo alla guerra in Europa, cartina di tornasole dell’ipocrisia nei confronti dello Stato ebraico – come un Putin qualsiasi ha fatto in Ucraina per molto meno (non ricordo di missili sparati da Kiev contro le città russe prima del 24 febbraio scorso. E forse nemmeno dopo, a invasione iniziata). Ma quello che i palestinesi stanno portando a compimento, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, anno dopo anno, sono veri e propri atti di guerra. Io credo che gli israeliani siano il popolo con il sangue più freddo del mondo. Israele non è privo di difetti, nessuna nazione al mondo lo è. Ma i suoi pregi sono di gran lunga più pesanti sul piatto della bilancia. A Tel Aviv, nei giorni scorsi, due bandiere, una palestinese e una israeliana, sono state esposte sulla facciata di un grattacielo con la scritta: “Vogliamo la pace perché, alla fine, il nostro destino è vivere insieme”. Commovente.