Membri delle Brigate Izz ad-Din al-Qassam, braccio armato di Hamas (20 luglio 2017)

La recente ondata di attentati vuole riaccendere i riflettori sul Medio Oriente, ma l’Occidente resta insensibile alle vittime israeliane

di Paolo Salom

[Voci dal lontano occidente] Gli attentati in Israele continuano. Hamas, da Gaza, glorifica gli “eroi” che compiono atti crudeli e insensati, uccidendo persone inermi a caso. Perché questa violenza? Perché (di nuovo) adesso? I motivi possono essere vari e non tutti immediatamente comprensibili: ordini dai “padroni” di Teheran, interessati a tenere sotto pressione Israele in vista della firma dell’accordo sul nucleare; desiderio di mostrarsi in prima fila, nella società arabo-palestinese, nella lotta contro “i sionisti” e quindi ottenerne la leadership; volontà di mantenere i riflettori del mondo su un conflitto che appare oscurato da quanto accade in Ucraina. Ce ne possono essere altri, ovviamente. Ma non fa grande differenza per le famiglie di chi resta ucciso o menomato mentre fa una passeggiata o rientra dal lavoro: per loro la condanna al dolore è definitiva. Quello che ci preme notare, qui, è la solita indifferenza del lontano Occidente quando si tratta di vittime israeliane. E, soprattutto, alla luce dell’invasione russa dell’Ucraina, l’abisso di sofferenza e distruzione che una guerra spietata può portare alla popolazione civile. Perché di questo si tratta: una guerra aperta, totale, condivisa contro un “nemico” (noi tutti: ebrei della Golà e israeliani) che si vuole distruggere a qualunque costo.
Eppure, da febbraio, i tanti sostenitori della causa arabo-palestinese, i responsabili di organizzazioni umanitarie che hanno avuto l’ardire di definire Israele una società fondata sull’apartheid, fanno i salti mortali per mettere a paragone le due esperienze – il conflitto in Europa e quello in Medio Oriente – assimilando le azioni difensive dello Stato ebraico alla guerra provocata e scatenata a freddo dal Cremlino. Ce la faranno? A logica, la risposta dovrebbe essere un sonoro “no”: come si fa a mettere sullo stesso piano un esercito, quello russo, che prende di mira i civili sapendo di farlo, che distrugge intere città e villaggi, che uccide senza pietà prigionieri militari e civili, da una parte, e Tsahal dall’altra, che in ogni sua azione bellica arriva a sospendere colpi strategici su terroristi responsabili di numerose ed efferati omicidi pur di non coinvolgere innocenti usati come scudi umani?
Come si fa a paragonare una guerra di conquista, studiata a tavolino, che ha lo scopo di “recuperare” lo spazio imperiale che fu dell’Unione Sovietica, con la volontà di Israele di difendersi e vivere in pace e libertà sulla propria terra, accanto ai vicini? È chiaro che si tratta di dinamiche lontanissime, che nulla hanno in comune. I russi non hanno mai dovuto subire attacchi di razzi sulle proprie case da parte degli ucraini; nessuno ha attraversato la frontiera tra i due Paesi per uccidere i passanti a colpi di accetta. Ma state tranquilli che nel momento in cui Israele cercherà di eliminare le minacce contro la propria popolazione civile, le anime belle del lontano Occidente si risveglieranno per accusare lo Stato ebraico di “genocidio”, “imperialismo” e “crudeltà”.
D’altro canto, non lo ha detto – alla televisione italiana! – lo stesso ministro degli Esteri di Mosca, Sergei Lavrov, che Hitler “aveva sangue ebraico”? Immaginiamo l’effetto sulla società arabo-palestinese di queste parole. Anzi forse non riusciremo a farlo, visto che nella propaganda antisionista del mondo arabo spesso fa capolino il volto del dittatore nazista, “rimproverato” perché non ha finito “il suo lavoro”. Ma se il mostro che ha ideato la distruzione di un popolo intero “condivideva” le stesse origini, che senso ha venerarlo come un profeta? E i russi non dicono di essere in Ucraina per “denazificarla”? Un altro paragone che si contorce su se stesso come viene immaginato. Quando la follia governa una società intera, per quanto ti sia nemica, chi ha più senno deve trovare la forza di mantenere i piedi per terra. E prepararsi al peggio.