Rav Alfonso Arbib: “Il popolo ebraico non può essere diviso al suo interno”

di Sofia Tranchina
A seguito dei tragici fatti avvenuti in Israele in questi giorni, lunedì 9 ottobre, durante un incontro presso la Scuola Ebraica di Milano per leggere i Tehillin per i soldati, i feriti, i rapiti e le vittime in Israele, il rabbino capo di Milano Rav Arbib si è rivolto alla comunità, per guidarla oltre alla pietrificazione iniziale, verso una reazione attiva: la riflessione sull’odio antiebraico, l’aiuto da rivolgere verso gli altri come presa di coscienza della responsabilità individuale, e la preghiera.

«Stiamo vivendo una situazione angosciante. Credo che non avremmo mai immaginato di trovarci in una situazione del genere. Ho sentito adesso, venendo qui in macchina, che è il più alto numero di ebrei uccisi in soli tre giorni dopo la Shoah.

È terribile solo pensarlo. È terribile pensare alle modalità, alla crudeltà, all’odio con cui tutto questo è stato perpetrato. È terribile pensare a tutto questo.

Che cosa possiamo imparare da tutto questo? Noi impariamo sempre, o almeno perlomeno tentiamo di imparare.

La prima cosa, la più ovvia: l’odio antiebraico ce lo portiamo dietro.

È qualcosa che non sembra voler sparire. E la cosa notevole è che ogni volta ci illudiamo che questo sparisca. Ogni volta per noi è una sorpresa. E forse su questo qualche domanda dobbiamo porcela: forse stiamo un po’ dormendo su questa faccenda.

Non si tratta di ricordare il passato, non è un problema di storia: è un problema di attualità. L’odio antiebraico è aumentato esponenzialmente negli ultimi anni, da tutte le parti, da destra e da sinistra. E con questo dobbiamo fare i conti.

E poi dobbiamo fare i conti con l’odio terribile del radicalismo islamico. Un odio che non ha limiti, e non avere limiti deriva dal fatto molto spesso di sentirsi vittime e quindi legittimati a qualunque cosa. Dobbiamo anche fare i conti con questo.

Quello a cui abbiamo assistito purtroppo non è una cosa nuova nella storia ebraica: è un pogrom. Ha tutte le caratteristiche classiche di un pogrom: la caccia all’ebreo, casa per casa. Una caccia alle persone in quanto ebree, non in quanto israeliani, non in quanto sionisti, ma in quanto ebrei.

I fatti sono iniziati nello Shabbat di Shemini Atzeret. Abbiamo appena ricordato l’attentato alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982 (in cui fu ucciso dai terroristi palestinesi il piccolo Stefano Gay Tashé, ndr) Anche quel giorno era Shabbat di Shemini Atzeret. E poi il rastrellamento del Ghetto di Roma del 16 ottobre 1943 (che portò alla deportazione di 1.023 ebrei al campo di sterminio di Auschwitz, dove sopravvissero solo 16 di loro). Cose allucinanti della nostra storia che purtroppo ritornano, anche in proporzioni che non avremmo veramente mai immaginato.

Il secondo elemento è un elemento tipicamente ebraico: ogni volta che succede qualcosa ci battiamo sul petto, ci chiediamo se abbiamo sbagliato. L’abbiamo appena detto nel mussaf dei giorni di festa: “a causa dei nostri peccati siamo andati in esilio dalla nostra terra”.

Sia ben chiaro, nessuno di noi sta dicendo che quel che è successo è successo a causa dei nostri peccati.

Ma è una una cosa tipicamente ebraica chiedersi: c’è qualcosa che ho sbagliato, c’è qualcosa che posso migliorare? L’idea fondamentale della tradizione ebraica è che ognuno di noi ha una responsabilità personale che incide sugli altri, che incide sulla comunità e che incide sul mondo intero.

Un passo del Talmud spiega: una persona che ha fatto una cosa sbagliata può far pendere il piatto della bilancia del mondo dalla parte sbagliata, e una persona che ha fatto una cosa giusta può far pendere il piatto della bilancia del mondo – non solo di sé stessa! – dalla parte giusta. Quindi noi abbiamo il dovere di porci questa domanda, come ebrei.

E certamente qualcosa abbiamo sbagliato: c’è una divisione interna al popolo ebraico che abbiamo il dovere di superare. Non possiamo permettercela, questa divisione all’interno del popolo ebraico.

Ci sono delle cose che possiamo fare: possiamo preoccuparci degli altri. È un modo classico ebraico di superare la divisione, è quello di occuparsi degli altri, occuparsi anche delle persone con cui non andiamo d’accordo.

C’è una halacha che parla del dovere di aiutare una persona che sta sollevando un carico su un asino. Se ci sono due persone che stanno sollevando un carico, di cui una è un mio amico e una è un mio nemico, il mio nemico ha la precedenza. Questo è un insegnamento ebraico fondamentale su cosa significa vivere all’interno del popolo ebraico: occuparsi dei propri amici, ma occuparsi anche di quelli con cui non si va d’accordo, di quelli che ci stanno antipatici. Occuparsi di tutti. Siamo un popolo, e questo significa essere capaci sempre di difendere am Israel.

Ieri abbiamo concluso la Torah col racconto di Moshe. Una delle cose che Moshe fa, è difendere il popolo ebraico. Moshe è assolutamente convinto che abbiamo una quantità enorme di difetti, tanto che ne dice di tutti i colori agli ebrei, ma, nel momento decisivo, difende il popolo ebraico. E non lo fa davanti all’opinione pubblica: si mette a discutere con Dio per difendere am Israel. Dobbiamo renderci conto che è un nostro dovere. Dobbiamo stare molto attenti a non dare ai nostri nemici degli strumenti. Dobbiamo stare attenti a difendere am Israel dall’interno.

È stato chiesto un aiuto per la Mizgheret (servizio civile di sicurezza), c’è bisogno di aiuto in Israele, ci sono persone che si occupano di preparare i pacchi per i soldati.

Abbiamo il dovere di aiutare Israele, l’esercito israeliano, il popolo ebraico. Dobbiamo intervenire per aiutare.

Come terza cosa, possiamo fare Tefillah. La Tefillah è fondamentale nella tradizione ebraica.

C’è un passo della Torah in cui c’è una beracha che viene scambiata, e a un certo punto Yitzach dice: “la voce è la voce di Yaacov, e le mani sono le mani di Essav”. I chachamim dicono che quella voce non è semplicemente una voce, ma che la forza di am Israel risiede nella voce, nella parola, nella capacità di parlare, nella capacità di studiare Torah, nella capacità di esprimersi con la propria voce, e nella capacità di pregare.

Questa capacità straordinaria che abbiamo, dobbiamo usarla.

Tutto questo lo diciamo in tre parole in un passo straordinario che leggiamo a Rosh Hashanah e a Kippur, una composizione poetica che si legge prima che usciamo di mussaf: Teshuva – ovvero farsi l’esame di coscienza di cui parlavo prima, Tzedakah – ovvero occuparsi del prossimo, e Tefillah – preghare, tolgono il decreto malvagio.

Questo è quello che possiamo fare noi, che viviamo qui, e non siamo in Eetz Israel ma abbiamo un rapporto totale assoluto col popolo ebraico e con lo stato di Israele, che va al di là della solidarietà: noi siamo parte di quella storia, parte di quel popolo, qualunque cosa pensiamo di un governo, di una politica o di qualunque altra cosa. Noi siamo parte integrante di quello, siamo parte di uno stesso destino».