Dopo la Shoah, i bambini ebrei mai restituiti

di Sonia Colombo e Pietro Baragiola

Il caso Finaly e il caso Nuscia. Conventi, scuole e battesimi forzati: una storia infame che non finisce. Due casi esemplari dopo il 1945

Dopo l’uscita del film Rapito del regista Marco Bellocchio, che ricostruisce il “caso Mortara”, si aprono nuovi scenari sulla questione dei battesimi forzati. Il piccolo Edgardo, il bambino ebreo bolognese battezzato segretamente dalla domestica e sottratto alla sua famiglia nel 1858 sotto il pontificato di Pio IX, non è certo l’unico né l’ultimo minore ad essere coinvolto in una vicenda simile.
È una storia antica quella dei battesimi forzati ma il fenomeno non si è spento neanche con il finire della Seconda guerra mondiale e gli orrori della Shoah. Molti minori che durante il conflitto avevano trovato rifugio all’interno di chiese, conventi e monasteri non sono mai stati restituiti ai loro parenti, mentre altri, dopo numerose peripezie, sono finalmente riusciti a ricongiungersi con i propri cari.

I battesimi forzati nella storia
Marina Caffiero, docente di Storia Moderna all’Università la Sapienza di Roma e autrice tra l’altro di Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei Papi, spiega a Bet Magazine: «La questione dei battesimi forzati è una pratica ecclesiastica che non corrisponde ad alcun elemento dogmatico o normativo di tipo formale ma è una pratica di cui parla il diritto canonico». Questi battesimi, forzati o indotti, sono sostenuti dai precetti del XII Concilio di Toledo del 681, che vieta ad un ebreo convertito di tornare all’ebraismo: pratica che rimane in vigore fino alla bolla Apostolicum Pascendi, emanata da Clemente XIII nel 1765 e poi ripristinata da Leone XII (1760-1829), con dure leggi nei confronti degli ebrei.

Se si conoscono i numeri dei bambini battezzati e convertiti a forza tra il XVII e il XVIII secolo, non si può dire però lo stesso riguardo ai minori che, dopo essere stati salvati dalla Shoah, nascosti all’interno di istituzioni cattoliche, sono stati poi trattenuti dalla Chiesa e non hanno più potuto ricongiungersi con i loro famigliari. Quanti furono? Le cifre sono imprecise.
Come testimoniato da una lettera pubblicata su Repubblica dal Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, all’indomani dalla Seconda guerra mondiale l’allora Rabbino Capo di Israele, Isaac Herzog (nonno dell’attuale presidente israeliano) riesce seppur con difficoltà a farsi ricevere da Pio XII per chiedere il rilascio dei bambini ebrei nascosti nei conventi e rimasti orfani per mano nazista. “Ognuno di questi piccoli sopravvissuti per il popolo ebraico vale come mille” affermò Herzog, ma le sue parole incisive non riuscirono a convincere il pontefice, che si avvalse degli stessi principi di Pio IX secondo i quali i bambini battezzati ormai appartengono alla Chiesa, pur di motivare il suo rifiuto. Anche lo storico delle religioni, Alberto Melloni, nel 2004 su Il Corriere della Sera, indaga sui battesimi forzati, portando alla luce alcune documentazioni inedite riguardanti Pio XII e Monsignor G. Roncalli (poi diventato papa Giovanni XXIII).
Quando Herzog richiede la restituzione dei bambini ebrei, Monsignor Roncalli inizialmente gli invia una lettera consentendogli di “usare la sua autorità” per raggiungere il suo scopo, ma poi riceve un ordine diretto di Pio XII che lo “invita” a non inviare risposte scritte alle autorità ebraiche: “la Chiesa avrebbe valutato caso per caso e i bambini battezzati avrebbero potuto essere affidati solo ad istituzioni che ne avrebbero garantito l’educazione cristiana”. Ma perché Pio XII era così ostile alla restituzione dei bambini ebrei? Secondo Marina Caffiero le motivazioni del Sant’Uffizio erano prevalentemente di natura dottrinale: il battesimo ha sempre avuto un carattere indelebile al punto di garantire al bambino “salvezza eterna” così come stabilito nell’Adunanza Plenaria del 27 marzo 1946, avallata dal pontefice.

Il caso di Gerald e Robert Finaly
Tra le storie di bambini ebrei sopravvissuti alla Shoah che hanno dovuto affrontare numerose peripezie prima di ricongiungersi ai loro cari, ricordiamo il caso Finaly, a proposito del quale esiste una vasta documentazione tra cui anche un film francese uscito nel maggio del 2022: Une enfance volée, di Jason Bourque, mai proiettato sugli schermi italiani. L’affaire Finaly si svolge tra il 1945 e il 1953 e coinvolge due fratelli, Robert e Gérald, figli del medico ebreo austriaco Fritz e di sua moglie Annie. Non essendo riusciti a fuggire in Sudamerica e rimasti a Grenoble, nel 1944 decidono, poco prima di essere deportati ed uccisi ad Auschwitz, di salvare i due figli di appena tre e quattro anni, affidandoli all’amica cristiana Marie Paupaert. Quest’ultima, avendo paura che i piccoli possano essere catturati, li porta in un convento che, a sua volta, li lascia in custodia alla direttrice di una scuola, Antoniette Brun, che li avrebbe dovuti “ospitare” solo fino alla fine della guerra.

Nel febbraio del 1945, quando viene liberata la Francia del Sud, una zia dei due bambini, Marguerite, emigrata in Nuova Zelanda, chiede la restituzione dei nipoti, ma la direttrice della scuola rifiuta, rassicurando però la zia che i bambini sono ancora ebrei. Dopo vari tentativi da parte di Marguerite e altrettanti rifiuti, interviene un’altra zia, Madame Rosner, residente nell’appena nato Stato d’Israele, che manda l’amico Moise Keller, che vive a Grenoble, a parlare con la Brun.

All’ennesimo rifiuto da parte della direttrice, che afferma tra l’altro di aver battezzato i due bambini, lui capisce che l’unica strada da percorrere è quella legale. Inizia così un’odissea di processi, tribunali e scontri giudiziari che dureranno 8 anni. Anche in seguito a un ordine del tribunale di restituire i due fratellini, la Brun non solo si oppone, ma per nasconderli, fa cambiare loro il nome e li fa espatriare nella Spagna franchista. Questo gesto porta all’arresto della direttrice insieme ad alcuni religiosi complici del misfatto. L’affaire comincia ad interessare la stampa, la politica e la giustizia francese. Rapire due bambini, figli di vittime della Shoah, crea molto scalpore Oltralpe, ma non solo: vengono coinvolti anche altri Stati, compresa la Spagna e lo Stato d’Israele.

David Kertzer, vincitore del Premio Pulitzer per le Biografie nel 2015 e storico della Brown University, che da molti anni lavora sul rapporto tra la Chiesa e le comunità ebraiche, rinviene alcuni atti interni al Vaticano, che dimostrano come il rapimento dei bambini sia stato voluto direttamente dallo stesso Pio XII, aiutato dalle massime autorità del segretariato di Stato e dall’ambasciata vaticana in Francia. L’affaire Finaly si risolve solo nel 1953, quando i bambini hanno già 11 e 12 anni. Il Vaticano cede solo per il timore di un irreparabile danno d’immagine, specialmente dopo l’arresto di molti religiosi coinvolti. La vicenda ha quindi per fortuna un lieto fine: i due fratelli Finaly hanno potuto riabbracciare i loro parenti in Israele e condurre una vita ebraica, lavorando, Gérald come ingegnere e Robert come medico, seguendo le orme paterne. Va sottolineato che, nonostante la sua condotta riprovevole, la Brun ha continuato indisturbata a vivere a Grenoble e a dirigere l’asilo comunale, fino al suo ritiro nel 1961.

La storia di Nuscia
Il secondo caso, segnalato a Bet Magazine da Ghitta Kahan e raccontato da suo padre, Martino Kahan, coinvolge direttamente la sua famiglia, in particolare la sorella acquisita, Nuscia. Sonia Burstein, madre di Martino nasce a Vilnius nel 1924, dove vive insieme alla famiglia. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, la sorella maggiore di Sonia si sposa e un anno dopo nasce una bambina: Nuscia. Quando i nazisti arrivano a Vilnius, la famiglia Burstein cerca la salvezza a Kovno, ma viene catturata in una retata e muore in un cinema dato alle fiamme dai nazisti. Martino racconta che al momento della cattura, il fratello di Sonia e il padre di Nuscia erano già scappati e si erano arruolati tra i partigiani russi. In casa rimasero quindi unicamente Sonia, di soli 17 anni – che si è salvata nascondendosi dentro a un tino vuoto – e Nuscia, che aveva appena un anno. Sonia, bionda e con gli occhi chiari, sembra ariana, riesce a passare inosservata e a portare la piccola in un convento. In seguito trova rifugio tra i partigiani nei boschi della Lituania e qui ritrova suo fratello che, purtroppo, viene ucciso appena due giorni prima della fine del conflitto.

Dopo la liberazione di Vilnius da parte dei russi, Sonia si reca al convento per recuperare Nuscia ma le suore non vogliono restituirla e la stessa bambina, che ha compiuto 4 anni, non vuole lasciare il convento, non riconoscendo la zia. Dopo aver cercato più volte di corrompere le suore, Sonia rapisce Nuscia e si affida all’American Jewish Joint Distribution Committee (JDC), un’organizzazione di soccorso che si occupa di condurre le famiglie ebraiche oltre la cortina di ferro. Nel frattempo Sonia si fidanza con il futuro padre di Martino: Luca Kahan, un ebreo ungherese. I due innamorati, insieme alla piccola, riescono a raggiungere un campo profughi a Trieste, e a convincere le autorità di essersi sposati in Lituania e che Nuscia è la loro bambina. Il loro piano è di emigrare in Israele o in America, ma tra il 1945 e il 1946, molti ebrei ospiti nel campo profughi, compresi loro, vengono accolti nell’attuale casa di riposo del ghetto, a Venezia, dove nasce Martino. Anche se nell’ambiente ebraico tutti sanno che Nuscia è sua cugina, lui e la bambina crescono come fratelli. Pochi anni dopo la fine della guerra, alcuni zii paterni, che vivono in Israele, conoscono il padre biologico di Nuscia, quello che si era arruolato come partigiano e di cui si erano perse le tracce. Scrivono a Sonia, ma né Martino, né Nuscia vengono informati del ritrovamento. Lei conosce il padre solo alcuni anni più tardi durante un viaggio in Israele, ma lui oltre ad essersi rifatto una famiglia, sembra che si sia dimenticato completamente della madre di Nuscia. Lei, non sentendo alcuna connessione con la figura paterna, torna a Milano, dove nel frattempo si è trasferita la sua famiglia. Racconta Martino che, in seguito ai traumi subiti, tutt’ora Nuscia non riesce ad entrare in una Chiesa, non sopportando l’odore dell’incenso. Oggi Nuscia, felicemente sposata, vive a Vienna; ha quindi imparato una nuova lingua, che si aggiunge al polacco, all’ungherese, allo yiddish e all’italiano, appresi lungo il suo percorso di rinascita nel dopoguerra.

Le due storie s’intrecciano casualmente: i Finaly sono diventati i consuoceri di Martino Kahan.
Nonostante i tentativi di riavvicinamento da parte della Chiesa nei confronti delle comunità ebraiche negli ultimi decenni, a partire dall’enciclica Nostra Aetate del Concilio Vaticano II negli anni ’60 e il mea culpa della Giornata del perdono di Papa Wojtyla nel 2000, si riscontrano tutt’ora molte animosità quando si parla di battesimi forzati. Il Rabbino Capo di Roma, Rav Riccardo Di Segni, teme che le reazioni da parte di alcuni cattolici intransigenti in seguito al film di Bellocchio potrebbero annullare il processo di dialogo tra Chiesa e comunità ebraiche, raggiunto solo dopo molti secoli. Nella preoccupazione che si possano riaccendere ostilità ormai sopite, la studiosa Marina Caffiero dapprima riflette sul fatto che alcuni casi di battesimi forzati restano davvero troppo emblematici per non essere oggetto di dibattito; dall’altro rassicura che «è bene che se ne parli perché bisogna sapere quello che è successo. Non giustificarlo ma capirlo».

 

Foto in alto: Robert e Gérald Finaly