Benvenuto rav Sciunnach: «Insegnare? È il mestiere più bello del mondo»

di Ilaria Myr

Nuovi rabbini italiani: la nomina di Paolo Sciunnach. La Scuola deve offrire una base solida all’identità ebraica, non solo intesa come senso
di appartenenza, ma anche nei contenuti.

«La causa principale dell’allontanamento dall’ortodossia ebraica in Italia è la relazione che gli ebrei hanno con la Torà orale, di cui conoscono poco i meccanismi e non riconoscono la natura giuridica». Parola di Rav Paolo Mordechay Sciunnach, che ha trattato questo argomento nell’esame per diventare Rav svolto a marzo, conseguendo a pieni voti il titolo rabbinico completo, dopo un lungo percorso di studi. Sciunnach già nel 2010 aveva ottenuto il primo grado di maskil previsto dall’ortodossia italiana; quest’anno ha infine ottenuto la semichà, ovvero l’investitura rabbinica, con una tesi finale dedicata al tema della kavanà, l’intenzione del cuore nel compiere le mitzvot prima, durante e dopo la loro esecuzione.

Il percorso della semichà – dall’ebraico “imposizione”, a ricordare l’imposizione delle mani che il maestro faceva sul capo del discepolo, che simboleggiava il trasferimento della conoscenza, la chochmà – non prevede però solo una tesi finale, ma un esame scritto e uno orale, e la stesura da parte dell’esaminando di alcuni scritti su argomenti di halachà calati nell’attualità.
«Uno dei temi che mi è stato assegnato è la relazione fra l’ebraismo italiano e l’ortodossia – spiega a Bet Magazine -. Il problema a mio avviso è solo uno: le persone si allontanano dalle mitzvot perché non ne conoscono la metodologia interpretativa o, peggio ancora, ne danno una spiegazione basata su categorie diverse da quelle tradizionali: ad esempio, considerandole solo qualcosa che si è sviluppato in un contesto storico. Se invece rendiamo le persone consapevoli che la Torà orale – ovvero la letteratura rabbinica composta da Mishnà, Ghemarà, Rishonim, Shulchan Aruch, Aharonim – è un diritto e ha le sue terminologie, categorie e metodologie, capiranno che non è corretto considerarla altro che questo e che è necessario analizzarne le categorie suo proprie».
La soluzione? L’unica e possibile, per Rav Sciunnach, è «l’insegnamento di questa materia, come funziona ed è stata trasmessa, quali e perché sono nate delle discussioni, la gerarchia delle fonti, le figure più autorevoli, il ruolo del rabbino e del Bet Din… Solo così si può avere una conoscenza consapevole di questi argomenti».

Il ruolo delle scuole ebraiche
In quest’ottica, svolgono un ruolo fondamentale le scuole ebraiche, che devono dare una base solida dell’identità ebraica non solo intesa come senso di appartenenza, ma anche nei contenuti. «Sono convinto che in tutti i Paesi in cui ci sono scuole ebraiche, esse debbano avere un certo numero di ore di ebraismo – minimo quattro – che permettano di affrontare le materie ebraiche a settori: Tanach, Halachà e Ghemarà, pensiero ebraico e storia ebraica. Perché chi esce dalla scuola ebraica, indipendentemente dal suo grado di religiosità deve avere una forte conoscenza delle fonti della letteratura rabbinica. Ma ci vuole anche un potenziamento delle ore di ebraico, in modo che chiunque esce dalla scuola possa studiare i testi originali e accedere all’università in lingua ebraica».
Si lega a questo tema l’idea che Rav Paolo Sciunnach ha in testa di un kollel come riferimento di studio per tutti, che possa essere frequentato anche solo part-time. «In questo modo si può fare della comunità un centro di vita spostato più sui contenuti», commenta.

Un’altra delle questioni calde dell’ebraismo italiano è quella delle piccole comunità, in cui la vita ebraica è spesso molto ridotta. «Credo fermamente che le grandi debbano diventare un punto di riferimento per quelle più piccole – spiega -: l’ideale sarebbe che le scuole ebraiche potessero ospitare i ragazzi delle piccole realtà ebraiche, in modo da ricevere questa formazione. Certo, ci vorrebbero importanti investimenti, ma potrebbe essere una bella scommessa anche sulle piccole comunità».
Del resto, Rav Sciunnach conosce da vicino cosa vuole dire venire da una piccola comunità, in cui non esiste una scuola ebraica e dove l’educazione ebraica arriva solo in casa oppure quando si prepara il Bar Mitzvà. Nato a Genova in una famiglia ebraica non religiosa, frequenta il Dac dove diventa amico di tanti ragazzi osservanti, che lo coinvolgono nella pratica religiosa. Crescono dunque la sua curiosità e gli interrogativi. «Un giorno chiesi a mia madre: ‘perché loro osservano e noi no?’. Lei mi rispose: ‘noi non riusciamo ancora a seguire bene la Torà come loro’. Questa risposta mi suscitò ancora più interrogativi: perché non potevo anche io essere shomer mitzvot? Ringrazio mia madre per non avermi dato una spiegazione definitiva, ma di avere in qualche modo lasciato aperta la porta alla mia curiosità».

A Genova studia con Rav Giuseppe Momigliano (padre di colei che diventerà sua moglie), e per il Bar Mitzva con Raffaele Laras. E poi, in età di liceo, le visite periodiche nel capoluogo ligure di Rav Benedetto Carucci lo introducono al mondo del collegio rabbinico. Ma il salto definitivo arriva dopo la maturità, quando decide di andare a fare la Mechinà all’Università ebraica di Gerusalemme, dove impara la lingua e comincia a frequentare anche la Yeshivat HaKotel, dove continua a recarsi ogni estate per quattro anni mentre a Genova studia storia all’università.
«Dopo la laurea in storia nel 2004 con una tesi filosofica, ho deciso di andare a vivere a Benè Berak, nella Yeshiva Netivit haOlam, una yeshivà haredì a orientamento litaì (“lituano”) non chassidico. Fu un’esperienza fondamentale: ero l’unico studente che veniva da fuori Israele e ho avuto la possibilità di acquisire le nozioni e la metodologia di studio, nonché conoscere dal di dentro il mondo haredì».

Nel 2008 si trasferisce a Milano e inizia a insegnare prima alla Scuola del Merkos e poi alla Scuola della Comunità ebraica, dove tutt’ora è appassionato docente di ebraismo al liceo. «Insegnare è il mestiere più difficile del mondo, e lo è soprattutto per le materie ebraiche – spiega -. Il morè, il maestro, deve instaurare una dimensione intima con l’educando, con l’obiettivo di tirare fuori le potenzialità del ragazzo; non a caso la parola moré ricorda horé, genitore, e come un genitore, l’insegnante deve sapere che il suo allievo è un figlio e come tale deve educarlo, nel senso di portarlo a esprimere la propria essenza ebraica. Dal verbo lechanech, educare, deriva infatti Chanukkà, che significa ‘inaugurazione’: quindi educare nel senso di portarlo a inaugurare la sua identità ebraica. L’importante, però, come dice un Passuk nei proverbi, è farlo ‘nella sua strada’, seguendo il suo ritmo e la sua indole, come fa, ad esempio il padre ai quattro figli nell’Haggadah di Pesach. Certo, è difficile, è il mestiere più difficile del mondo, ma è anche il più bello. perché dà tante soddisfazioni».