Beniamin Netanyahu con Emmanuel Macro

La Francia rifiuta i mandati d’arresto della Corte Penale Internazionale contro Netanyahu e Gallant: il caso divide l’opinione internazionale

Mondo

di Marina Gersony
La recente decisione della Francia di non rispettare i mandati d’arresto emessi dalla Corte Penale Internazionale (CPI) contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, nonché il leader militare di Hamas nella Striscia di Gaza Mohammed Deif, accusati di crimini di guerra e contro l’umanità durante il conflitto mediorientale in corso, ha alimentato un intenso dibattito globale. Parigi si unisce ad altri Paesi, come l’Argentina e l’Ungheria, nel rifiutare l’esecuzione dei mandati, sostenendo che Israele, non essendo firmatario dello Statuto di Roma, non può essere soggetto a tali procedimenti. Al contempo, diversi Stati hanno dichiarato la loro intenzione di rispettare i mandati di arresto o hanno esortato gli altri a fare altrettanto, mentre altri hanno adottato un approccio più prudente riguardo alla loro esecuzione.

 

I mandati della CPI si basano su presunti crimini commessi durante la guerra a Gaza, che ha provocato migliaia di vittime civili. Israele ha respinto con forza queste accuse, definendo le azioni del tribunale come politicamente motivate e legalmente infondate. Netanyahu ha paragonato il caso a un moderno «processo Dreyfus», evocando l’antisemitismo come chiave di lettura per l’accanimento giudiziario internazionale. Il suo ufficio ha dichiarato in un comunicato: «Nessuna guerra è più giusta di quella che Israele sta conducendo contro Hamas». In Israele, tuttavia, non manca il dissenso. Alcuni analisti e osservatori sostengono che la CPI stia agendo in modo politico, creando una falsa equivalenza tra le azioni di Israele e quelle di Hamas. Shlomo Levin, nel suo blog sul Times of Israel, sottolinea che il tribunale avrebbe dovuto concentrarsi prima sui crimini di Hamas, che erano evidentemente documentati, prima di procedere con le indagini sugli alti ufficiali israeliani​.

Le implicazioni della posizione francese

La dichiarazione francese è arrivata un giorno dopo che Netanyahu ha accettato un cessate il fuoco con Hezbollah in Libano, negoziato congiuntamente da Francia e Stati Uniti, suggerendo che la posizione di Parigi sui mandati della CPI potesse essere stata parte delle condizioni dell’accordo. «In conformità con la lunga amicizia tra Francia e Israele, due democrazie impegnate nello stato di diritto e nel rispetto di un sistema giudiziario professionale e indipendente, la Francia intende continuare a lavorare in stretta collaborazione con il Primo ministro Netanyahu e le altre autorità israeliane per raggiungere pace e sicurezza per tutti in Medio Oriente», si legge nel comunicato.

Il tono della dichiarazione appare nettamente diverso rispetto al mese scorso, quando il presidente francese Emmanuel Macron  e Netanyahu (insieme in una foto del 2018) si erano scontrati pubblicamente a causa della minaccia di Macron di sospendere le vendite di armi a Israele per la gestione della guerra a Gaza. Oggi, la Francia sostiene che l’invalidità dei mandati dipenda dal fatto che Israele non è uno Stato membro della CPI. Questa linea di pensiero riflette il delicato equilibrio tra il diritto internazionale e la sovranità nazionale. Parigi ha inoltre espresso preoccupazione per il rischio di politicizzazione della giustizia internazionale, una critica condivisa da altre potenze, come gli Stati Uniti, che hanno definito i mandati «oltraggiosi».

Come riporta l’Ansa, l’amministrazione Biden ha dichiarato di «respingere categoricamente» la decisione della CPI, dicendosi «profondamente preoccupata» e non riconoscendo la giurisdizione della Corte «su questa questione». Il presidente argentino Javier Milei ha inoltre dichiarato che così si «ignora il legittimo diritto di Israele a difendersi dagli attacchi costanti di Hamas e Hezbollah».

Dopo la dichiarazione della Francia sul mandato di Netanyahu, Josep Borrell, l’Alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza uscente, ha affermato che le decisioni della CPI devono essere rispettate. Come precisa il Times of Israel, il diplomatico spagnolo – il cui mandato termina questo mese – ha ricordato che si tratta di una «decisione vincolante» a cui tutti i Paesi Ue sono tenuti ad adempiere. «Non possiamo indebolire la Corte penale internazionale. È l’unico modo per avere giustizia globale – ha dichiarato ai giornalisti a Bruxelles –. Non sono politici. È un ente legale formato da persone rispettate che sono le migliori tra i giudici professionisti».

 

La posizione del Governo italiano

Per quanto riguarda l’Italia, la posizione del governo in merito al mandato d’arresto emesso dalla CPI contro Netanyahu è stata oggetto di discussione tra i membri della maggioranza. Dopo aver dichiarato di voler «approfondire la questione», la premier Giorgia Meloni ha escluso qualsiasi «equiparazione tra Israele e Hamas». Il governo potrebbe cercare di mediare tra gli obblighi internazionali e il mantenimento di buoni rapporti con Israele, alleato strategico dell’Italia. In questa fase, la via del compromesso potrebbe essere l’approccio privilegiato, cercando di sostenere la CPI senza compromettere i legami diplomatici con Israele.

Nel frattempo, l’opposizione ha sollevato critiche sulla posizione del governo, chiedendo una maggiore chiarezza sulla condanna dei crimini di guerra, indipendentemente dalle alleanze geopolitiche. Partiti di centrosinistra hanno espresso preoccupazione per il fatto che la posizione del governo possa sembrare eccessivamente allineata con quella di Israele, senza una condanna esplicita dei crimini di guerra in corso a Gaza. La situazione è, come evidenziato, complessa e si inserisce in un quadro internazionale sempre più polarizzato, in cui la giustizia internazionale e la politica si intrecciano, costringendo i leader a trovare un equilibrio tra principi giuridici e considerazioni geopolitiche.

 

 

Le reazioni in Israele

In Israele, la decisione della Francia è stata accolta con soddisfazione, sottolineando il ruolo strategico delle alleanze diplomatiche in un momento di forte pressione internazionale. Fonti israeliane hanno evidenziato come l’approccio della CPI sia percepito come un tentativo di «criminalizzare il diritto di Israele a difendersi» contro il terrorismo di Hamas, un’organizzazione che la stessa Corte non ha perseguito con la medesima intensità.

La domanda centrale resta: in un sistema internazionale sempre più polarizzato, è ancora possibile garantire una giustizia imparziale, o la CPI rischia di trasformarsi in uno strumento politico incapace di ottenere risultati concreti? Sono interrogativi e riflessioni che alimenteranno un dibattito destinato a proseguire.

 

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