Da Gerusalemme, le voci del dialogo ebraico-cristiano

Mondo

di Marina Diwan Osimo

Rabbanim e personalità ebraiche insieme a un cardinale, un arciprete, un padre gesuita e un teologo valdese, in viaggio “mano nella mano” per camminare alla scoperta delle radici comuni verso la Pace. Un pellegrinaggio a più voci che si nutre di momenti storici, come la lettura comune dei Tehillim-Salmi, al Kotel, ma anche di cordialità e amicizia. Un evento unico, il primo in duemila anni di storia. Chi l’avrebbe detto che il dialogo ebraico-cristiano potesse giungere a un tale grado di fratellanza? Eppure così è stato durante il viaggio interreligioso in Israele, Ebrei e Cristiani in viaggio, nel giugno scorso. Grazie soprattutto a rav Giuseppe Laras, Rabbino Emerito di Milano, che così ha voluto onorare la memoria del Cardinale Carlo Maria Martini, l’amico con cui ha condiviso le ragioni del dialogo. Nel corso del viaggio, abbiamo raccolto testimonianze e “voci del dialogo” direttamente dai protagonisti di questa avventura.

Rav Giuseppe Laras
«Questo viaggio è frutto del grande amore e attaccamento che il cardinale Carlo Maria Martini aveva per Israele. Abbiamo pensato di piantare una foresta di alberi in Alta Galilea, proprio per simboleggiare il suo legame con questa terra. Martini è stato una figura chiave del dialogo ebraico cristiano, lo ha rilanciato fin da quando si è insediato nella diocesi di Milano nel 1980, lo stesso anno in cui io sono diventato Rabbino capo della città. Abbiamo camminato insieme in questa avventura che prima languiva. Lo scopo condiviso era quello di re-incontro, sul piano umano, tra ebrei e cristiani, dopo quasi 2000 anni di contrapposizione e di odio; per riprendere un cammino in comune, fermo restando le differenze dottrinali e religiose di ciascuno. Questo soprattutto dopo la Shoah, esito devastante di secoli di teologia cristiana e di insegnamento del disprezzo verso gli ebrei. Come diceva lo storico ebreo francese Jules Isaac “bisognava inaugurare una nuova stagione” per indebolire le ragioni dell’antisemitismo, per smontare i pregiudizi e andare in direzione della pace. Allo stato attuale, per continuare questo percorso, occorre cercare di indebolire la componente che divide, rafforzando le energie e le ragioni che accomunano. Martini sottolineava che nell’ebraismo affondano le radici comuni, in cui si innesta il cristianesimo e la Chiesa. La via non è semplice e il dialogo non è certo un fenomeno di massa; rimane, infatti, un discorso abbastanza elitario per il quale ci vuole anche una certa preparazione. Ogni passo è importante e questo viaggio, al quale purtroppo non ho potuto prendere parte per motivi di salute, lo ha testimoniato, anche perché la via del dialogo passa attraverso valori comuni come la fratellanza e l’importanza dei rapporti tra le persone».

Rav Elia Richetti (Presidente dell’Assemblea Rabbinica d’Italia)
«In questo viaggio il dialogo ebraico cristiano si è arricchito di un simbolo: quello della foresta piantata in ricordo del Cardinale Carlo Maria Martini. Nella tradizione ebraica è forte il legame tra l’essere umano e l’albero. In particolare l’albero rappresenta il passaggio della cura e dell’attenzione da una generazione all’altra. Eternare la memoria di una persona piantando alberi significa quindi trasmetterne il ricordo affinché non venga dimenticata per lungo tempo. Il significato profondo dell’albero come simbolo della memoria destinata a durare e a crescere è un omaggio alla vita, alla continuità, alla forza di guardare al futuro. In questo modo abbiamo voluto celebrare il ricordo di una persona che ha insegnato al mondo l’amore per la terra di Israele e per il popolo ebraico; il ricordo di un uomo che si è distinto per l’impegno per la pace e per contribuire al dialogo e alla conoscenza reciproca. Vogliamo che queste sue qualità vengano ricordate e che il suo insegnamento possa crescere. Con questo viaggio, quindi, ci siamo dati il tempo di conoscerci e di comprenderci a vicenda e abbiamo dato vita a qualcosa che è destinato a durare e a consolidarsi nel tempo. Camminando insieme e piantando insieme alberi, abbiamo offerto un esempio. Il dialogo, infatti, è lo strumento che può far germogliare la comprensione reciproca e noi preghiamo affinché sia anche il modo  per far germogliare la pace per il mondo intero».

Rav Israel Meir Lau (Rabbino capo di Tel Aviv-Yaffo, Emerito Rabbino Capo di Israele)
«In un incontro a Milano con il Cardinale Martini, avevamo auspicato l’arrivo dei tempi in cui, come annuncia la profezia di Isaia, il lupo dimorerà con l’agnello, evento che si è già realizzato al tempo dell’arca di Noè. Il nemico contro cui belve e animali pacifici si allearono allora era il mabul, il diluvio. Ora anche noi abbiamo nemici comuni: l’odio, l’ateismo, il cancro, l’aids, l’atomo, l’inquinamento del pianeta… L’umanità quindi per libera scelta deve comprendere ora ciò che le bestie feroci compresero allora: che è giunto il momento di unirsi e avere rapporti comuni e di pace nonostante le differenze, perché la differenza di idee non può assolutamente essere motivo di odio. Qualche giorno dopo, a Roma incontrai papa Giovanni Paolo II. Essendo entrambi di Cracovia, gli ho chiesto conferma di una storia di cui ero venuto a conoscenza riguardo a un bambino consegnato ai vicini di casa cattolici dai genitori ebrei catturati dai nazisti. Al compimento dei 5 anni, i genitori adottivi lo portarono da lui, allora vescovo di Cracovia, per farlo battezzare e lui domandò di che religione fossero i genitori biologici e che cosa avrebbero voluto per il figlio; venuto a sapere che desideravano che diventasse ebreo come loro, il vescovo non lo battezzò. Papa Giovanni Paolo II mi confermò la storia e aggiunse che tanti bambini in quelle condizioni gli furono portati e che non ne battezzò mai nessuno. Ho conosciuto quel bambino e ora è un ebreo osservante. Il pontefice ricordò anche che quando era a Cracovia soleva vedere mio nonno andare alla sinagoga, circondato da tanti bambini. Mi domandò quanti nipoti avesse e io gli risposi 47, poi mi chiese quanti ne sono rimasti e gli risposi 5, tutti gli altri sono stati uccisi. Il Pontefice allora dichiarò che “l’umanità intera aveva il dovere di fare di tutto per mantenere in vita il fratello maggiore, il popolo di Israele”. Ecco perchè saluto con grande favore questo viaggio al quale offro la mia benedizione».

David Meghnagi (Docente di Psicologia e Direttore del Master Internazionale sulla Shoah)
«La vera amicizia verso il popolo ebraico passa attraverso -e non solo- il legame ideale e religioso con l’Israele biblico, ma attraverso l’incontro con il popolo reale, concreto, che sta ricostruendo la sua vita in Israele. Sottolineo l’importanza di venire a visitare questo Paese per combattere un sottile pregiudizio che circola ancora e che è stato riformulato in chiave anti-israeliana. Quindi invito le persone non solo a fare pellegrinaggi ad Auschwitz, a Birkenau, andando a visitare i luoghi dove ci si può identificare con chi non c’è più, sentendosi buoni con qualche lacrima. E’ importante piuttosto invitare le persone a conoscere ciò che è rimasto, ciò che è rinato, ciò che si sta ricostruendo, quindi la vita di questo paese. Venendo qui si può toccare con mano che questo Paese non ha nulla a che vedere con l’immagine stereotipata che i media italiani ci vogliono mostrare. Questo è un paese vivo, pieno di immaginazione, dove si entra in contatto in modo creativo con la memoria per inventare il futuro. Proprio questo confronto con la realtà israeliana potrebbe essere di grande aiuto anche per il nostro Paese, l’Italia, dove si è perso il senso del futuro, perché si è smarrita la capacità di immaginazione poetica, di stabilire un rapporto creativo con chi non c’è più e continua a vivere dentro di noi. Noi ebrei veniamo spesso dipinti come un popolo che non dimentica, che ha rancore. Non è vero. Ogni volta veniamo immagazzinati in un discorso assurdo, stereotipato: “hai perdonato?”. Questa è una patologia che corrode le fibre dell’etica, un processo perverso che impone il perdono alla vittima invece di imporre al carnefice il pentimento. Non c’è nessun popolo che ha saputo perdonare come gli ebrei. Il grande miracolo del popolo ebraico è stato poter continuare a credere nella vita nonostante ciò che è accaduto nella Shoah. Perchè fin da bambini, ci hanno insegnato che di fronte alla scelta se vivere o morire, noi dobbiamo scegliere la vita, la dobbiamo scegliere per noi, per chi non c’è più e per chi verrà, dopo di noi».

Rav Eugene Korn (Rappresentante dell’International Jewish Commitee e del Center for the Jewish-Cristian Understanding & Cooperation)
«Questo viaggio ha qualcosa di storico e miracoloso, un evento che mio nonno, vissuto 130 anni fa, non avrebbe neanche potuto sognare: che rabbini, cardinali, monsignori, fedeli cristiani e cattolici osservanti potessero pregare e stare insieme in un modo positivo e fecondo. Il mio augurio, come è scritto in Bereshit, è che ognuno possa benedire l’altro e possano esserci benedizioni per tutti. Occorre sottolineare l’importanza di piantare alberi per un uomo di pace, votato al dialogo come il Cardinale Martini. Piantare alberi piccoli e farli diventare grandi è quello che Dio ci chiede, e in questa occasione simboleggia il futuro che auspichiamo al rapporto tra ebrei e cristiani. Io faccio parte del Centro per la Comprensione & la Cooperazione Ebraico – Cristiana e il nostro obiettivo è proprio vincere la diffidenza attraverso la conoscenza e la comprensione reciproca, e so che quando si stabilisce una simile relazione è più difficile che insorga l’odio. Stiamo costruendo attraverso il dialogo le basi di un percorso importante di pace».

Cardinale Francesco Coccopalmerio (Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi
«Porto i saluti e il messaggio di compiacimento e fratellanza inviati da papa Francesco, che intende contribuire al progresso del dialogo con gli ebrei iniziato dai suoi predecessori. Sono infatti convinto che dobbiamo procedere sulle orme del cardinale Carlo Maria Martini, che ha sempre detto no alla teologia della sostituzione dei cristiani rispetto agli ebrei, imposta per secoli: infatti, nella Bibbia è scritto che le promesse fatte da Dio al popolo di Israele sono eterne ed esso sarà per sempre il popolo eletto, per cui la coesistenza e la fratellanza tra i nostri popoli è fondata su motivi teologici. E’, quindi, importante conoscere la religione ebraica, noi abbiamo bisogno di questo contatto perché è la radice santa su cui si innesta la Chiesa. Significato del viaggio è che dopo tante difficoltà, tanti pregiudizi le due componenti del popolo di Israele e del popolo della Chiesa si sono unite, hanno cercato di conoscersi, di capirsi, di condividere i valori comuni che abbiamo, per esempio la lettura dei Salmi: in questi giorni lo abbiamo fatto diverse volte, anche solennemente e pubblicamente al Muro del Pianto. Questo è un evento storico importante perché non sono solo parole, sono avvenimenti, opere. Mi ha impressionato che il percorso a Yad Vashem diventa alla fine, dopo aver attraversato l’inferno, un percorso libero verso l’alto e verso la luce. Con questo pellegrinaggio abbiamo vissuto proprio un simile percorso verso la luce, verso un cammino di progressiva comunione ritrovata tra i nostri due popoli e ci auguriamo che questo percorso di riunione diventi sempre più vero, profondo e attuabile. Non vogliamo tornare indietro ma andare avanti, forti anche dei tanti esempi di cristiani che hanno salvato gli ebrei durante la Shoah, e che sono ora ricordati nel “giardino dei Giusti” a Yad Vashem, e grazie all’apertura di papa Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II con la dichiarazione Nostra Aetate».

Monsignor Gianantonio Borgonovo (Arciprete del Duomo di Milano)
«Porto il messaggio del cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, che sottolinea l’esempio e la guida di Carlo Maria Martini in virtù della sua tenace ricerca della giustizia; auspica che la sua memoria faccia crescere ulteriormente l’amicizia tra ebrei e cristiani ed estende la sua personale preghiera affinché tutti i ricercatori del vero e unico Dio possano edificare un mondo di pace e giustizia. Per Scola, ci sentiamo parte dell’unico Israele di Dio in un dialogo fatto di reciproca conoscenza e grande amicizia che non vuole fermarsi alle apparenze, ma desidera essere un vero cammino di teshuvà, allontanamento dal nostro peccato, e venerazione dell’unico Dio in cui crediamo. Solo così potremo davvero capirci e pregare insieme E in questo viaggio abbiamo proprio cercato di capire quello che l’altro è, fa, dice, il suo modo di comportarsi, di pregare, di cantare, superando anche la difficoltà di adeguarsi e di mettersi dalla parte dell’altro, per vivere insieme i valori. Questo è il vero senso del viaggio che abbiamo fatto e del lavoro che dobbiamo fare. Occorre recuperare quella memoria condivisa che ci accomuna, che abbiamo spezzato e che deve essere ricucita con pazienza, anche nei momenti di preghiera insieme. Questa convivenza e questa frequentazione che abbiamo condiviso ci ha restituito quel senso di appartenenza e ha permesso alle persone di comprendere le affinità e il patrimonio comune, come ad esempio la lettura dei Salmi. Siamo all’inizio di un percorso, la prima cosa alla quale arriveremo insieme sarà di comprendere l’altro e il suo modo di essere, senza meravigliarci della diversità con cui si da vita ai simboli che sono i medesimi. Il punto comune a tutti è la voglia di essere fedeli ognuno alla sua tradizione, non vogliamo creare qualcosa di misto, incolore, inodore e insapore, azzerando le differenze con un po’ di tutto, ma vogliamo vivere le nostre diversità insieme e questo crea dialogo».

Gioachino Pistone (Teologo valdese)
«Questo viaggio, con la convivenza reciproca, la cerimonia della foresta e la lettura dei Salmi al Kotel, è stata un’esperienza senza precedenti, che segna la storia, anche se nessuno lo scriverà sui libri di testo.Il dialogo è l’essenza della nostra esistenza. Mi conosco in quanto mi specchio nel volto dell’altro e lo riconosco come diverso da me. L’altro mi da quel limite che mi consente di riconoscermi e definirmi. Nel ‘900 ci sono stati tre grandi pensatori teorici del riconoscimento di se stessi nel volto dell’altro: Emmanuel Levinas, un ebreo; Michel De Certau, un gesuita cattolico; Paul Ricoeur, un protestante. Sostengo però, sulle orme del biblista e teologo Paolo de Benedetti, che non si possa parlare di dialogo ebraico-cristiano alla pari, perché il cristianesimo ha alle spalle duemila anni di persecuzione che non si cancella con la sola richiesta di perdono. Il cristianesimo ha bisogno di riconoscere che l’ebraismo e lo stato di Israele sono una realtà di cui occorre parlare al presente, deve interrogarsi sul perché sono state possibili le persecuzioni per far si che questo non accada mai più e infine deve riconoscere il patrimonio e la cultura biblica che la tradizione ebraica ha sviluppato e completare il passaggio dall’insegnamento del disprezzo all’insegnamento del rispetto nei confronti degli ebrei. Il rapporto con l’ebraismo mette tutte le chiese cristiane sullo stesso piano, nessuna può dire di essersi comportata meglio, e invita a fare teshuvà rispetto al passato: i cambiamenti devono entrare nella liturgia, nella catechesi e nella predicazione per mettere fine alle accuse esplicite o implicite contro gli ebrei che ancora persistono. Io sono convinto dell’Unità di Dio e non della sua Unicità: Dio è Uno e si manifesta in forme molteplici e differenti. Ognuno risponde a suo modo e nessuno ha il diritto di sindacare. Ecco perché è fondamentale saper capire le ragioni dell’altro».

Guido Bertagna (Padre gesuita)
«Abbiamo viaggiato insieme. Niente è scontato: che si possa fare della strada verso una méta e che la si voglia raggiungere insieme. Uno dei cammini importanti del nostro viaggio in Israele è stato quello di Yad Vashem, la cui struttura è una ferita che si incunea nel dorso della montagna. Si scende lungo un percorso obbligato da fratture, interruzioni, altre ferite. Obbligato all’inferno. Non c’è modo di “tirare dritti”. Ecco, mi sembra che il nostro cammino di dialogo abbia anch’esso dei percorsi obbligati, da cui non si può prescindere e che non si possono evitare. Sono spesso quei luoghi del dolore dove l’ascolto delle voci deve diventare accogliente e profondo. Accogliente nel profondo.Ci aiutano le parole del Cardinale gesuita Carlo Maria Martini: “La strada dell’incontro fraterno con Israele passa ormai necessariamente per Auschwitz. E da qui passano pure tante altre strade di incontro tra uomini e donne della fine di questo secolo: qui si fa silenzio, si riflette e si prega, da qui scaturisce l’impegno a costruire insieme un mondo di pace”. Il concetto della pace è ripreso da padre Adolfo Nicolas, superiore generale della Compagnia di Gesù, che mi ha affidato un messaggio per la cerimonia degli alberi e vede proprio nell’albero un simbolo di cura e accoglienza, che dobbiamo fare nostro come un invito alla responsabilità per cammini di pace. Infatti, senza fare la pace con Esaù, il fratello simile e dissimile, anche Giacobbe non può trovare pace».

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