La curva della vergogna: quando il razzismo sporca lo sport

Italia

di Paolo Castellano

Sfottò avvelenati, il verso della scimmia, il saluto fascista, cori antisemiti e xenofobi. E poi stadi trasformati in arene gladiatorie, la lealtà sportiva violata dagli ultras. Dal caso Anna Frank a quello del judoka israeliano Tal Flicker… Perché lo sport invece di unire, divide e separa? Un’analisi

 

Stadio Olimpico di Roma, 22 ottobre 2017: gioca la Lazio contro il Cagliari. La curva nord, sede degli ultras laziali, è vuota a causa di un provvedimento che il giudice sportivo ha preso dopo i cori razzisti indirizzati ai giocatori del Sassuolo Adjapong e Duncan, intonati dalla tifoseria bianco-celeste nella precedente partita. La dirigenza della Lazio, per aggirare il divieto, organizza l’iniziativa We fight racism e mette a disposizione dei biglietti a 1 euro per gli abbonati in curva nord che potranno sedersi in curva sud, riservata solitamente ai tifosi della Roma. La vittoria della Lazio è netta: la squadra rifila agli ospiti sardi ben tre gol. Il clima di gioia viene però interrotto dalla segnalazione di adesivi sui divisori trasparenti degli spalti della curva sud. Sulla barriera, sono state appiccicate foto di Anna Frank con la maglietta della Roma e la scritta “romanista ebreo” di colore bianco su sfondo blu. Il 24 ottobre il presidente della Società Sportiva Lazio, Claudio Lotito, fa la seguente dichiarazione: «La Lazio ha sempre messo in campo azioni e iniziative contro ogni forma di razzismo perciò ci dissociamo da tutto questo». Passano soltanto pochi giorni e in Germania, il 30 ottobre, gli ultras del Borussia Dortmund fanno circolare su internet le foto di Anna Frank con la maglia della squadra Schalke 04. Inoltre il blog locale Ruhrbarone.de. riporta che sono stati trovati degli adesivi su Anna Frank nei pressi di Dusseldorf. L’impatto mediatico è enorme e sembra di essere tornati nel 2014 quando il lancio di una banana verso l’ex-giocatore brasiliano del Barcellona, Dani Alves, scatenò un putiferio. Allo stadio Madrigal, la squadra del Villareal giocava contro i campioni del Barcellona quando sul terzino blaugrana Alves pioveva una banana lanciata dal pubblico. Il gesto razzista fu subito disinnescato: Alves con freddezza raccolse il frutto e se lo mangiò. Nelle interviste post-partita il brasiliano dirà ai giornalisti di aver sentito cori offensivi contro di lui e il compagno di squadra Neymar.

Che dire ancora del judoka israeliano, Tal Flicker, che il 27 ottobre scorso ha vinto il primo posto al Grand Slam di Abu Dhabi nella categoria fino a 66 chilogrammi? Gli organizzatori arabi non hanno concesso di suonare l’inno di Israele e nemmeno l’esposizione della bandiera dello Stato ebraico. Dopo esser stato premiato, Tal Fliker decide allora di intonare, da solo, l’HaTikvah, aggirando con inventiva i divieti. Solo in un secondo momento, le forze dell’ordine di Abu Dhabi si sono giustificate, affermando che la decisione era stata presa per garantire la concordia sportiva.

Cori di insulti, saluto fascista, verso della scimmia: da Mario Balotelli a Kevin Prince Boateng, da Kalidou Koulibaly alla pallavolista nera Nenka Arinze. Calcio e razzismo, sport e pregiudizio, violenza negli stadi e antisemitismo. Fatti e cronache sportive che gettano ombre inquietanti sui mondiali di calcio alle porte, nel 2018 in Russia (e nel 2022 in Qatar). Preoccupazioni fondate, stando almeno alle reiterate minacce verbali degli ultras russi per i quali intolleranza e razzismo sono considerati “normali”, e per le forze dell’ordine nulla più di una puntura di spillo. Quanto al Qatar, il Paese del golfo sarebbe sotto i riflettori per i presunti finanziamenti al terrorismo e per i bassi standard in materia di diritti umani.

Vige una impunità diffusa

In che misura allora è pensabile poter arginare il fenomeno? Da cosa nasce e perché è in preoccupante ascesa? Dal fronte istituzionale, oltre alle dichiarazioni di circostanza, poco o nulla viene deciso. Di fatto, vige una impunità diffusa, data l’importanza delle tifoserie. Tutti gli organi e le organizzazioni sportive italiane hanno deplorato il comportamento degli ultras laziali. Carlo Tavecchio, ex presidente della FIGC (Federazione Italiana Gioco Calcio), ha condannato l’escalation razzista delle frange estreme della tifoseria laziale, dichiarando tuttavia di non possedere alcuna facoltà d’imposizione sulle società sportive. «La curva nord squalificata per razzismo trasferita in curva sud? Non è di competenza federale la gestione degli stadi. La federazione prende provvedimenti di natura disciplinare, l’applicazione poi dipende dalle società e dai titolari degli stadi», ha riferito Tavecchio all’Ansa. Insomma, la mano passa alla magistratura che in questi mesi dovrà applicare eventuali sanzioni. «La giustizia sportiva già si è attivata, la procedura dovrà riguardare tutte le parti interessate alla trasformazione della curva e agli atti che sono emersi», aggiunge Tavecchio.

Nel frattempo, il Presidente della Lazio Claudio Lotito concede nuovamente l’accesso alla curva Sud dell’Olimpico, data ai possessori dell’abbonamento in curva Nord, con un sovrapprezzo di 8 euro. Nonostante i precedenti, la tifoseria “senza sede” biancoceleste può godersi la partita Lazio-Udinese del 5 novembre che viene però rinviata per maltempo. Tuttavia, la decisione di Lotito viene criticata dal presidente del CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano), Giovanni Malagò, che il 4 novembre ha dichiarato all’Ansa il suo disappunto: «Non mi sembra questa una mossa di distensione. Aspetteremo, con la giustizia sportiva, di capire chi ha ragione». Malagò inoltre spiega che il CONI non ha nessuna competenza disciplinare riguardo alle tifoserie: «il CONI è solo l’affittacamere, concede l’uso alle società sportive con tutte le responsabilità che ne derivano. È una partita tutta interna alla FIGC, mi sembra che si stia giocando in punta di diritto anche con la giustizia sportiva».

Sul fronte degli analisti e opinionisti, c’è chi minimizza, chi grida al cripto-fascismo, chi tuona contro i club sportivi troppo tolleranti e permissivi. Per il giornalista Vincenzo Martucci, storica firma della Gazzetta dello Sport, il caso delle magliette con Anna Frank rappresenta una forma di stupidità aggravata da frustrazione sociale: «Dobbiamo stare attenti nel giudicare questi fatti. Non si tratta di un trend, non esiste una realtà generalizzata, ma solo singoli episodi. Quando le persone si ritrovano insieme e per di più coperte dall’anonimato, diventa facile abbandonarsi a gesti eccessivi. L’obiettivo non è colpire il giocatore straniero o di colore. Lo scopo è quello di innescare una reazione, alzare i toni, cercare la rissa provocando chi allo stadio ci viene per divertirsi e appassionarsi». L’Italia non è un Paese razzista, sostiene Martucci. Ma allora da dove scaturiscono certi atteggiamenti? «Ritengo che una delle cause sia la cattiva educazione, la pessima preparazione storica. La scuola dovrebbe migliorare l’approfondimento di temi come quelli legati alla Shoah», insiste Martucci, spiegando che il valore intrinseco dello sport è totalmente incompatibile con i pregiudizi razziali. «Lo sport è nato per avvicinare i popoli. In Italia non c’è oggi un uso strumentale e politico del razzismo e dell’odio. Sono comportamenti frutto di rabbia e frustrazione causata da altri elementi, che nulla hanno a che fare con il contesto sportivo. In Italia non è mai esistita una storia dello sport con precedenti razziali».

Che cosa fare allora contro pregiudizio e violenza? «Innanzitutto dovrebbero essere puniti con un DASPO (Divieto di Accedere alle Manifestazioni Sportive, ndr). Chi si macchia di questi comportamenti non deve entrare nello stadio, soprattutto in curva. Punizioni mirate, atteggiamenti sanzionati: non trovo giusto che per un gruppo di ignoranti si chiuda uno stadio penalizzando i tifosi perbene. L’ultras antisemita dovrebbe essere rieducato con percorsi formativi, ad esempio la visita di un campo di concentramento, oppure attraverso lavori socialmente utili, per capire la realtà del quotidiano e apprendere i valori della condivisione».
L’opinione di Emanuela Audisio, scrittrice e celebre penna sportiva del quotidiano La Repubblica, è decisamente più categorica: «Il razzismo come l’antisemitismo non è solo un problema della Lazio, ma di tutto il calcio italiano. Non è pensabile né accettabile che oggi, per insultare qualcuno, si possa utilizzare la parola “ebreo”». La giornalista ha ricordato un recente episodio relativo alla commemorazione di un sopravvissuto di 98 anni alla Shoah, avvenuto prima del derby toscano di Serie C, il 29 ottobre, tra Carrarese e Lucchese: «Gli ultras della Lucchese hanno lasciato vuota la loro curva mentre quelli della Carrarese facevano finta di nulla. L’ex-deportato, Dante Unti, è stato completamente lasciato nell’indifferenza. Siamo di fronte a una immane, spaventosa ignoranza». L’Audisio ha spiegato che le cose non potranno cambiare finché queste scorrettezze non saranno severamente sanzionate da istituzioni e federazioni. «Non capisco per quale motivo un arbitro non trascriva nel consueto verbale di partita, il “referto”, insulti quali “zingaro” o “negro” urlati durante il match. Gli ultras cercano visibilità. Bisognerebbe cambiare passo e smettere di far finta di niente quando si è davanti a insulti razziali o antisemiti. Le immagini su Anna Frank sono state uno scempio. Le cause? Ignoranza e totale assenza di sportività».

Lo stadio non può essere considerato una zona franca, sostiene Emanuela Audisio, un luogo di sdoganamento della violenza dove i tifosi possono sentirsi legittimati nel dare sfogo agli istinti più bassi. «Uno dei modelli possibili potrebbe essere quello del baseball americano. Ultimamente, negli Stati Uniti, un giocatore è stato sospeso per 5 giornate: aveva fatto il gesto dell’occhio a mandorla a un altro giocatore per irridere le sue origini asiatiche. Può essere considerata forse un’esagerazione, ma intanto si reagisce e si manda un segnale. Il messaggio è che lo sport è di tutti e che non saranno tollerate discriminazioni. In Italia, una sospensione di 5 giornate sarebbe inimmaginabile».
A proposito del judoka israeliano, Audisio afferma che i grandi eventi sportivi, come le Olimpiadi, dovrebbero avere come condizione il rispetto del “patto sportivo” e di tutte le nazionalità in gara: pena pesanti sanzioni nelle sedi giudiziarie internazionali. «Lo sport non aiuterà a cambiare le inimicizie storiche tra le genti, ma deve poter essere un patrimonio di tutti. Il razzismo e l’antisemitismo nello sport saranno debellati quando non si verificherà più un solo caso di intolleranza su spalti e campo da gioco».

Politica e sport

Vetrina del potere, strumento politico, soft power tra i più efficaci. Per molti, lo sport è anche questo. Secondo il giornalista de Il Sole 24 Ore Marco Bellinazzo, autore del saggio Feltrinelli I veri padroni del calcio, assistiamo oggi a una rilevante commistione tra politica e sport. Bellinazzo è convinto che lo sport stia acquisendo contorni politici sempre più netti. Certo, anche negli anni Trenta fu un efficace strumento di propaganda (chi non ricorda il celeberrimo documentario nazista della regista Leni Riefenstahl Olympia distribuito nel ‘38, sulle Olimpiadi di Berlino?). «Negli ultimi 15 anni la propaganda sportiva è divenuta più precisa, una forma di soft power usato per rafforzare l’immagine di un Paese e del suo governo nel contesto internazionale – dice Bellinazzo. -Ma all’elemento sociale, oggi si aggiunge quello del potere economico. La causa è la globalizzazione. Comprare una squadra di calcio o di basket vuol dire allargare il proprio bacino di influenza e di consenso, possedere uno strumento di pressione in grado di orientare l’opinione pubblica e le masse. Insomma, aiuta la politica e i poteri economici a plasmare la propria immagine pubblica. Tornando al caso dello judoka israeliano, sarebbe semplicistico pensare allo sport per risolvere la complessa questione israelo-palestinese. Tuttavia, lo sport è un ponte efficace, crea legami, sodalizi, e può davvero diventare una reale opportunità per sciogliere le tensioni, invece che crearle».