«Ci stanno uccidendo, ci stanno bruciando»: il terrore degli ostaggi nelle mani di Hamas

Israele

di Nina Deutsch
Dal festival alla prigionia: emergono nuove verità scioccanti sulle brutalità subite. Omer Wenkert racconta il 7 ottobre e i 200 giorni di isolamento, tra botte, umiliazioni e la paura di essere dimenticato: «Sapevo quando fallivano le tregue, perché mi picchiavano».

 

Man mano che passa il tempo da quel tragico 7 ottobre e alcuni ostaggi tornano finalmente a casa, emergono le atrocità che hanno vissuto. Sono storie di prigionia, torture e terrore che lasciano un segno indelebile su chi è sopravvissuto. Il racconto di Omer Wenkert, uno degli ostaggi rilasciati, offre una testimonianza della brutalità inflitta ai prigionieri israeliani da parte dei terroristi di Hamas. È una verità che dovrebbe scuotere le coscienze di coloro che ancora negano o minimizzano l’orrore di quella giornata e dei mesi successivi.

La prigionia: ogni fallimento dei negoziati si traduceva in violenza

Durante la sua prima intervista pubblica con Channel 12 News, Wenkert ha raccontato con lucidità i suoi 505 giorni di prigionia. Isolato dal mondo, aveva però un segnale inequivocabile per capire quando le trattative per un cessate il fuoco fallivano o quando un alto esponente di Hamas veniva ucciso: la violenza dei suoi carcerieri si intensificava.

«Ogni volta che un accordo saltava, la frustrazione e la rabbia esplodevano su di me», ha raccontato. «Se uno dei loro padri, delle loro famiglie o dei loro capi veniva ucciso, lo sapevo subito. Venivo picchiato, umiliato, costretto a esercizi fisici estenuanti».

La brutalità non aveva mai fine. Gli sputi, le percosse, la privazione del cibo non erano solo strumenti di punizione, ma vere e proprie armi di annientamento psicologico.

L’inferno al Festival Nova: il massacro e il rapimento

Wenkert aveva deciso di partecipare al Festival musicale Nova con la sua migliore amica, Kim Damti. Ma ciò che doveva essere una notte di festa si è trasformata in un incubo di fuoco e sangue.

Alle 6:30 del mattino, le sirene dei razzi avevano iniziato a suonare. Rifugiatosi in un bunker con altri giovani, Omer inizialmente pensava che l’IDF sarebbe intervenuto rapidamente per neutralizzare i terroristi. Ma poi è iniziato l’assalto.

«Ho sentito qualcuno gridare: “Entrate, entrate! Ci sono terroristi!”. Ho sentito urlare “Allah U Akbar” e subito dopo una granata è esplosa nel rifugio».

Nel giro di dieci minuti, era già a Gaza. Per le strade, la folla lo ha accolto con pugni e calci. Anche i bambini lo colpivano. Nel giro di venti minuti era già sottoterra, in uno dei tunnel della rete terroristica.

All’inizio, pensava di essere solo. Poi ha scoperto che con lui c’erano altri ostaggi, compresi alcuni lavoratori thailandesi. Tutti picchiati selvaggiamente, privati del cibo, dell’acqua, della dignità. Per 197 giorni, Wenkert è rimasto in totale isolamento, costretto a parlare con sé stesso per non impazzire.

Uno dei momenti più atroci è stato il suo compleanno. «Quel giorno un terrorista è entrato nella mia cella e mi ha svegliato con una furia cieca. Mi ha colpito con una verga di ferro, umiliato, insultato. Quello è stato il mio regalo di compleanno». Eppure, nonostante tutto, Wenkert ha trovato la forza di benedirsi da solo: «Mi sono detto: “Questo è il punto più basso che abbia mai toccato, ma sopravviverò”».

 

 

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I terroristi non si sono fermati. Hanno iniziato a incendiare il bunker, a gettare dentro altre granate. «All’inizio c’era solo caos, urla disperate. Ma quando hanno cominciato a bruciarci, è calato il silenzio. Il fumo era ovunque, non riuscivamo più a respirare».

Kim Damti era lì, accanto a lui. «Penso che fosse ancora viva. Ma poi l’ho sentita gridare: “Ci stanno uccidendo, ci stanno bruciando”». Quella frase, racconta Wenkert, lo perseguita ancora oggi.

Il rapimento: il buio di Gaza e la tortura quotidiana

Quando i terroristi hanno fatto irruzione nel rifugio, Wenkert ha capito che non l’avrebbero ucciso subito. «Uno di loro mi ha guardato e mi ha detto: “Non ti spariamo”. Solo allora ho capito che mi stavano portando via».

 

Gli ultimi compagni di prigionia e la liberazione

Con il passare dei mesi, altri ostaggi sono stati portati nella sua stessa cella. Con loro, Wenkert ha stretto legami indissolubili. «Non credo che la parola “fratelli” basti a descrivere il nostro rapporto», ha detto parlando di Tal Shoham, Evyatar David e Guy Gilboa-Delal.

Quando finalmente è stato liberato, Wenkert ha visto per un istante i suoi compagni salutandolo da un furgone, prima di essere riportati nelle mani dei loro rapitori. «Quel piccolo sorriso che mi hanno mandato è stata la cosa più toccante di tutta la cerimonia».

La vita dopo l’orrore: «Vivere è la nostra vittoria»

Oggi, Wenkert non desidera vendetta. «Non voglio sprecare neanche un pensiero per i miei carcerieri», dice. Ma il suo pensiero costante va agli ostaggi ancora nelle mani di Hamas.

Il suo sogno è tornare a una vita normale, diventare padre. Ma sa che finché anche solo un ostaggio sarà ancora a Gaza, non potrà trovare pace. «Tal diceva sempre: “Alla fine, saranno loro a rimanere prigionieri della loro stessa crudeltà. Noi torneremo alla vita. E questa sarà la nostra vittoria”».

La testimonianza di Wenkert è una ferita aperta nella coscienza del mondo. Una verità che non può e non deve essere ignorata.