di Anna Balestrieri
Dal 18 al 22 maggio 2025, Gerusalemme ha ospitato due dei suoi eventi culturali di punta: la tredicesima edizione del Jerusalem International Writers Festival e il Jerusalem International Book Forum, ex Fiera del Libro. Entrambi si sono svolti presso il suggestivo complesso di Mishkenot Sha’ananim, grazie al sostegno della Fondazione di Gerusalemme e del Municipio cittadino.
Anche in un contesto segnato dalla guerra in corso e da decenni di conflitto, Israele ha confermato la forza creativa e la resilienza della sua cultura. Il doppio evento ha riunito scrittori, filosofi, editori e critici da tutto il mondo, testimoniando come la parola scritta continui a offrire uno spazio di dialogo, riflessione e connessione umana.
Un’edizione internazionale
L’edizione 2025 del Jerusalem International Writers Festival ha segnato un deciso ritorno alla scena internazionale dopo un’edizione precedente segnata dall’assenza quasi totale di ospiti stranieri. Il protagonista assoluto di quest’anno è stato Michel Houellebecq, autore francese celebre per la sua vena provocatoria, insignito del Premio Gerusalemme. L’annuncio della sua partecipazione ha sollevato un ampio dibattito nel mondo culturale israeliano e internazionale, in parte per il suo noto atteggiamento polemico nei confronti dell’Islam e in parte per il contrasto tra il suo stile cupo e l’idea di “libertà dell’individuo nella società”, tema fondante del premio.
La figura di spicco: Michel Houellebecq
Houellebecq ha dichiarato di aver accolto con entusiasmo l’invito, sottolineando il valore formativo e stimolante dei suoi precedenti viaggi in Israele e manifestando l’intenzione di ascoltare e osservare le trasformazioni del Paese. Prima dell’apertura ufficiale del festival, ha partecipato a un evento speciale al Tel Aviv Museum of Art, dove ha letto le sue poesie in francese accompagnato dal musicista Eran Tzur. Questa performance intima ha offerto uno scorcio inedito del suo universo poetico, confermando l’eterogeneità dell’offerta culturale del festival.
Durante una serata in una libreria di Tel Aviv, Houellebecq è stato costretto a rifugiarsi in un seminterrato antiaereo insieme al pubblico, mentre risuonavano gli allarmi per un attacco missilistico dallo Yemen. L’atmosfera surreale è stata accentuata dalle note di Maurice Ravel, suonate dalla pianista israeliana Ofra Yitzhaki per calmare i presenti. “La resilienza della gente qui è affascinante e dice qualcosa di profondo sull’umanità”, ha commentato lo scrittore, visibilmente colpito.
La partecipazione di Bernard-Henri Lévy e Gábor T. Szántó
All’inaugurazione del festival, tenutasi dal 18 al 22 maggio presso Mishkenot Sha’ananim, ha partecipato anche Bernard-Henri Lévy, filosofo e intellettuale francese di spicco. La loro presenza ha incarnato due traiettorie ideologiche differenti ma complementari della cultura francese contemporanea. Tra gli altri ospiti internazionali figuravano Gábor T. Szántó, autore ebreo-ungherese, Stefan von Holtzbrinck, CEO del gruppo editoriale tedesco Holtzbrinck, e Oliver Vogel, direttore della storica casa editrice S. Fischer Verlage.
L’”ultimo scrittore ebreo-ungherese”, Gábor T. Szántó, noto per il romanzo 1945, ha tenuto uno degli incontri più intensi del festival, dialogando con l’israeliana Lizzie Doron sulla trasmissione del trauma e la responsabilità della memoria. In un clima di grande concentrazione, i due autori hanno discusso di cosa significhi raccontare la Shoah in contesti nazionali e generazionali diversi, evitando tanto la retorica quanto il pietismo. “La memoria non è una forma di nostalgia,” ha detto Szántó, “ma una sfida narrativa.”
La letteratura in tempi di emergenza
Il festival ha scelto di non cedere all’ineluttabilità del dolore. Si è svolto all’insegna della “letteratura in tempi di emergenza” – non come rifugio o evasione, ma come spazio di relazione, di parola data, di presenza consapevole.
La direttrice Maya Koren, nel suo discorso inaugurale, ha dichiarato: “Il festival avviene in un momento fragile e difficile. Abbiamo esitato a lungo, ma alla fine abbiamo deciso che se si può ancora parlare, leggere, ascoltare, allora si può ancora vivere.” Queste parole non erano uno slogan: erano un impegno.
Paul Lynch, vincitore del Booker Prize per Prophet Song, ha aperto il festival insieme ad AyeletGundar-Goshen. Il romanzo di Lynch racconta un’Irlanda immaginaria in preda a un regime repressivo. Lynch parla con voce quieta ma tagliente, riflettendo su come l’immaginazione letteraria possa contenere – e forse disinnescare – la carica profetica della paura.
L’autore israeliano Iftach Alony ha presentato The Last Picture, un podcast dedicato alle vittime del 7 ottobre. Ha letto racconti ispirati alle ultime foto scattate da chi è stato ucciso nei kibbutzim. Immagini semplici – un bambino con un aquilone, una colazione, una stanza piena di libri – che, rievocate con voce piana, restituivano dignità alla perdita.
Un altro momento forte è stato il dialogo tra Dorit Rabinyan, Sayed Kashua e Adania Shibli, tenutosi al Museo d’Arte Islamica. Non ci sono state risposte, ma domande condivise sulla possibilità di vivere e scrivere dentro un conflitto persistente. “Non siamo qui per dare risposte,” ha detto Kashua, “ma per abitare le domande.”
Anche gli eventi musicali e poetici hanno cercato di mettere in dialogo lingue e memorie. Maria Stepanova ha letto i suoi versi russi tradotti da Tal Nitzan. I testi, mai declamati, sembravano in ascolto delle pietre. Più che un reading, una veglia laica.
La declinazione artistica del festival
In parallelo al festival letterario, una serie di mostre d’arte in diverse città israeliane ha riflettuto sulla natura come spazio di perdita, di ritorno e di costruzione identitaria. Al Tel Aviv Museum of Art, l’installazione “The Garden” di Yael Moria ha trasformato 1.000 metri quadrati in un paesaggio iperrealistico e inquieto, a pochi passi da Hostage Square.
I dipinti di kibbutz di Michael Kovner, esposti dalla Gordon Gallery a New York, sono stati riletti alla luce del trauma del 7 ottobre, pur essendo stati dipinti anni prima. Alla Rosenfeld Gallery, Boaz Noy ha reinventato gli spazi urbani israeliani con una sensibilità provenzale: alberi che affiorano in angoli ordinari, offrendo un contrasto poetico alla cronaca.
Il Haifa Museum of Art ha inaugurato la mostra permanente “Facial Topography: Art of the Land from the Museum’s Collection”, esplorando il paesaggio – fisico e simbolico – attraverso opere di Rubin, Gutman, Janco e artisti contemporanei come Farid Abu Shakra e Oded Hirsch. Di particolare rilievo, la scultura ottocentesca di Mark Antokolsky Christ Before the People’s Court, proposta come simbolo di coesistenza e interscambio.
Il festival non ha cercato di essere un’“isola felice”. Non ha offerto una tregua, ma uno specchio. Le tensioni erano visibili, le divergenze pure. Alcuni incontri hanno suscitato discussioni accese; altri sono stati interrotti da silenzi pesanti. Ma tutto ciò ha conferito alla manifestazione una densità rara. In un momento segnato dalla guerra e dalla frattura, la cultura può ancora offrire spazi di riflessione critica, dialogo e, forse, riconciliazione.