Il Sionismo fu, per gli ebrei, un atto di rottura con un passato quietista e di attesa. Per diventare costruttori della propria Storia

Opinioni

di Claudio Vercelli

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[Storia e controstorie]

 

La demonizzazione è come un solvente che si applica ai fatti per stingerne non solo il colore ma anche per cambiarne la natura sociale, civile e morale. La demonizzazione, quindi, deforma cose e persone sottoposte alla sua azione. Tuttavia, non c’è risposta più eloquente alla demonizzazione del sionismo del presentarlo nella sua veste storica. Non solo come movimento nazionale, inserito nel solco delle trasformazioni, spesso radicali, comunque sempre accelerate, che interessarono l’intera regione mediterranea ed europea a cavallo tra il XIX e il XX secolo ma anche e soprattutto come insieme di ragioni, individuali e collettive, che confluirono in un progetto infine condiviso. Le premesse erano molteplici, gli esiti quindi non scontati. Una visione che ne celebri solo i risultati finali senza valutare passaggi, protagonisti, eventi, speranze e anche vincoli non ci restituisce la complessità di quella epopea collettiva. Il sionismo è un fenomeno plurale e pluralistico. Plurale poiché chiama in causa una molteplicità di motivazioni, delle quali la costruzione di uno Stato degli ebrei è il punto di sintesi. Pluralistico in quanto non solo conosce stagioni diverse, tra la seconda metà dell’Ottocento fino ad oggi, ma anche perché chiama in causa molti soggetti, identità differenti, origini distinte. Si tratta di una confluenza che rinnova le tradizioni ebraiche ma nella quale una parte consistente dell’ebraismo, quella altrimenti condannata ad una condizione di minorità sociale e di esclusione civile, si politicizza chiedendo un riconoscimento collettivo di identità. Tra le diverse parole chiave del sionismo tre emergono come imprescindibili: auto-emancipazione, rigenerazione e cooperazione. L’auto-emancipazione è il lungo percorso che induce a ritenersi protagonisti della propria storia. Nulla di meno scontato, in origine. E non solo in campo ebraico. L’emancipazione che passa attraverso quella che non è la concessione altrui del diritto formale ad una eguaglianza giuridica ma con la conquista propria di una indipendenza piena corrisponde ad un atto di rottura con un passato quietista e di attesa. Con il sionismo l’ebreo diventa costruttore della sua storia. La rigenerazione è il pensiero che si fa pratica concreta, per il quale qualsiasi idea che non si incontri con l’azione materiale rischia di rimanere consegnata all’ambito delle buone intenzioni, destinate a non andare oltre a una visione romantica (e perdente) del mondo. La rigenerazione ha al suo centro l’uomo come soggetto partecipe, che pone in discussione, non solo per necessità ma anche per consapevole volontà, lo stato di cose preesistente, investendo sulla riforma di se stesso. Il nesso con il lavoro, inteso come quotidiano impegno e costante sforzo fisico, era qualcosa di più di un obbligo, rispondendo semmai alla consapevolezza che per essere indipendenti bisogna sapere creare. La cooperazione, infine, è lo stadio delle relazioni sociali in cui l’individuo non vale solo da sé ma solo se si mette in relazione con gli altri. Non annulla la sua specificità: piuttosto la trasforma condividendo legami di scambio con i suoi pari. Non c’è nulla di idealistico in tutto ciò. Semmai c’è il prendere nelle proprie mani l’esistenza e farla divenire un percorso di significati. Non c’è una missione da adempiere ma un progetto da realizzare. Un fatto, quest’ultimo, molto politico. Per questo, chi ricorrere al solvente, come se si trattasse di cancellare una macchia della Storia, nega la storia medesima. Non l’opinione che si può nutrire su di essa ma il fatto stesso che la storia sia plurale.