«Caro Monsignore, il Dialogo oggi passa per Gerusalemme»

Italia

di Ilaria Myr

Il riconoscimento del legame indistruttibile tra Israele e il popolo ebraico (contro tutti i negazionismi). L’antisionismo e l’antisemitismo. Una parola ormai vuota, “pace”, a cui è necessario ridare senso. Questi i temi della visita dell’Arcivescovo di Milano, Cardinal Angelo Scola, al Tempio Centrale. Perché il Dialogo va rinnovato e fatto crescere

Solo capendo il legame degli ebrei con Israele e Gerusalemme si comprende l’ebraismo. Negando, come ha fatto l’Unesco, il legame del popolo ebraico con Gerusalemme e con Israele non si sta “toccando“ la politica di un governo o di uno Stato, ma l’essenza stessa dell’ebraismo. Il rapporto con Gerusalemme e la Terra di Israele deve diventare il tema centrale nel Dialogo ebraico-cristiano e con le altre religioni, in primis l’islam. Perché se si negano le radici non ci può essere nessun Dialogo». A parlare così, in modo pacato ma perentorio, è il Rabbino capo Alfonso Arbib, toccando quello che è ormai uno punti più caldi e dolenti delle recenti relazioni internazionali, ivi comprese quelle, in passato, non sempre lineari e idilliache tra Vaticano e stato d’Israele.
Dialogo, comprensione, convivenza. Ma anche Israele, Gerusalemme, antisemitismo e antisionismo. Sono proprio queste le parole risuonate più a lungo martedì 17 gennaio nella Sinagoga centrale di Milano, durante la visita del Cardinale Arcivescovo di Milano, Monsignor Angelo Scola – la prima del prelato in una sinagoga milanese-, oggi al termine del suo mandato, iniziato nel 2011.

Ad accoglierlo, Rav Alfonso Arbib, Rabbino capo di Milano e gli esponenti della Comunità ebraica, primi fra tutti i co-presidenti Milo Hasbani e Raffaele Besso. Nella Sinagoga gremita, di fronte a ebrei e cristiani – nella Delegazione del Cardinale alcuni Vescovi ausiliari, rappresentanti del Consiglio delle Chiese Cristiane di Milano con l’attuale presidente, il pastore Platone, sacerdoti e partecipanti alla Commissione per l’Ecumenismo e il Dialogo della Diocesi, membri del Comitato scientifico dei “Dialoghi di Vita Buona” -, l’accoglienza è subito calorosa. Ad ascoltare ci sono anche Yahya Pallavicini, presidente del Coreis (Comunità Religiosa Islamica Italiana), molte autorità civili e militari, i direttori del Corriere della Sera e di Avvenire, Luciano Fontana e Marco Tarquinio, oltre all’intera dirigenza della Comunità ebraica milanese.
«La visita dell’Arcivescovo cade in un momento di grave crisi mondiale e di violenza resa preoccupante dalla scarsa comprensione della situazione da parte dei governanti – ha dichiarato il co-presidente della Comunità Ebraica di Milano, Raffaele Besso -. Sua eminenza mi permetta di ricordare quanto lo Stato di Israele sia oggi bersaglio di un rinnovato odio antiebraico. Ed è proprio nell’ottica dell’amicizia ebraico-cristiana che è importante che la Chiesa, che Lei rappresenta, sappia difenderne l’esistenza non solo per i valori comuni, ma anche per le radici che la fede cristiana affonda in quella terra».
In rappresentanza dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane è intervenuto il Vice Presidente Giorgio Mortara che ha sottolineato come «l’incontro odierno con la Comunità ebraica di Milano, costituisce un ulteriore passo in quell’essenziale percorso di comprensione e fiducia reciproca che ha preso il via con la dichiarazione di Nostra Aetate. Un percorso che in questa fase storica molto complessa, in cui intolleranze e radicalismi religiosi minacciano non solo la libertà di culto, ma la vita di milioni di persone, assume un valore ancor più significativo di lotta comune contro chi istiga all’odio». In un momento storico costellato di continue violenze e attentati – Berlino, Istanbul, Gerusalemme solo nell’ultimo mese -, è quindi importante che le religioni agiscano con una responsabilità sociale ben precisa e che i loro leader siano un esempio per tutti. «Il Vaticano – ha aggiunto Mortara – ha fatto scelte importanti su questo fronte, con riconoscimenti che non spetta a noi giudicare, portati avanti attraverso scelte che è nostro augurio siano state attentamente meditate. Ma a queste attestazioni di fiducia e di apertura al dialogo, la preoccupazione del mondo ebraico è che corrispondano immediate condanne contro chi invece sceglie la strada della violenza, dell’istigazione all’odio, del terrorismo per colpire la pace a cui tutti aspiriamo, in Italia, in Israele e nel mondo». È finito, secondo Mortara, il tempo del dialogo fatto di incontri interreligiosi, seguiti per lo più da poche persone. «Oggi invece il dialogo tra religioni deve trasformarsi in agire, in convivenza, in condivisione di progetti e di spazio, andando oltre al pensiero e alla parola. È su questa strada che dobbiamo incamminarci come auspicato da documenti di Commissioni miste di carattere sia multiculturale ed interetnico, sia interreligioso».
Esempi concreti sono, ad esempio, la collaborazione fra Memoriale della Shoah, Comunità di sant’Egidio e  City Angels per i migranti alla Stazione Centrale, il progetto “Insieme per prenderci cura”, promosso dalla Accademia Ambrosiana con l’AME,  Associazione Medica Ebraica, che con il Corso per il personale addetto alle carceri (e altre iniziative), ha visto collaborare inieme Cristiani, musulmani, ebrei, sotto l’egida della Curia, del Rabbinato e del Coreis.
«Questi sono un ottimo esempio di collaborazione tra comunità ebraica e Curia –dice l’Assessore alla Cultura della Comunità ebraica, Davide Romano, che ha anche introdotto la serata -. Aggiungo solo che in tempi di fanatismo, dal momento in cui sappiamo che la maggior parte dei terroristi islamici viene indottrinato in carcere, sarebbe opportuno che insieme anche ai nostri amici musulmani ci facessimo sentire di più dalle autorità, affinchè ci permettano di lavorare non solo sul personale del carcere, ma soprattutto sui detenuti. Per salvare noi, e salvare anche loro. Inoltre, credo che il Dialogo vada tenuto ben acceso. Ricordiamoci che come in un buon matrimonio, il dialogo va rinnovato e fatto crescere ogni giorno. Se non lo si tiene vivo, senza accorgercene giungiamo all’avvizzimento e alla disgregazione».
È toccato quindi al Vice Presidente del Memoriale, Roberto Jarach, che ha letto il puntuale intervento di Giuseppe Laras, Rabbino emerito di Milano.

 

La parola è poi passata al padrone di casa, rav Alfonso Arbib, Rabbino capo di Milano, che con piglio deciso ha espresso profonda gratitudine al Cardinale per questa Sua iniziativa e per la richiesta di questo incontro. Arbib ha parlato del Libro di Ruth, da cui si possono trarre molti insegnamenti: «quello della solidarietà, la ghemilut hasadim, che significa fare del bene al prossimo, senza fare troppi calcoli, tema strettamente legato a quello di giustizia, il lifnìm mishuràt haddìn, al di là della linea di giudizio».
Ma l’aspetto su cui il Rav si è soffermato è quello riassunto nella celebre frase di Ruth, la moabita che diventa ebrea, “il tuo popolo è il mio popolo, il tuo Dio è il mio Dio”. «Questa frase sintetizza lo stretto legame fra religione ebraica e popolo e fra popolo e terra d’Israele e con la città che è al centro della vita ebraica, Gerusalemme – ha spiegato -. Gerusalemme è la città del Santuario, distrutto due volte ma sempre presente nel cuore degli ebrei, che pregando si rivolgono nella sua direzione, la città della spiritualità e della pace. Negando, come hanno fatto alcuni organismi internazionali – vedi l’Unesco – il legame del popolo ebraico con Gerusalemme e con Israele si mette in discussione l’essenza dell’ebraismo». Il Rav ha poi parlato della parola shalom, pace, che ha come radice la parola shalem, completezza, integrità. «Quello di Pace è uno dei concetti più inflazionati del nostro tempo – ha spiegato -. Basti pensare che anche Adolf Hitler parlava di pace… Ognuno ne parla come vuole. Ma bisogna stare attenti perché questa idea si presta a due concezioni antitetiche: la prima è quella che vede la convinzione della propria integrità e la volontà che gli altri si adeguino alla mia completezza, la qual cosa è alla base di ogni fondamentalismo. L’altra concezione, opposta a questa, vede invece la completezza come un’aspirazione in sé e per sé, uno sforzo continuo per diventare completi. Ed è questa la concezione che mi interessa e che deve essere alla base del Dialogo interreligioso».
Tornando al discorso iniziale della solidarietà, Rav Arbib ha sottolineato come essere solidali significhi capire cosa pensano gli altri, ovvero mettersi nei loro panni. Una tendenza in generale poco diffusa. «Spesso, anche noi ci sentiamo poco capiti, soprattutto nella nostra relazione con Israele e con Gerusalemme, legame che rende così peculiare il nostro popolo. E se non si affronta questo rapporto non si capiscono né l’ebraismo né la tradizione ebraica».

Subito dopo, la parola è passata all’Arcivescovo che ha sottolineato come «cristiani ed ebrei siano chiamati alla costruzione di una civiltà dell’amore.Questa visita ufficiale nel 150° anniversario dell’edificazione della Sinagoga di Milano, esprime il desiderio sincero di superare le gravi incomprensioni e difficoltà che anche lungo la storia del Paese hanno visto coinvolte le nostre comunità – ha esordito il Cardinale Scola -. Gli 896 ebrei milanesi deportati restano una ferita ancora infetta e sono da condannare le responsabilità storiche di taluni figli della Chiesa nel favorire le oggettive ingiustizie contro popolo ebraico, come disse Giovanni Paolo II a Yad Vashem. Il dialogo con l’ebraismo occupa per i cristiani un posto unico – ha proseguito -. Essendo la religione ebraica intrinseca alla nostra religione». E citando una dichiarazione del teologo svizzero Leopold von Balthasar, ha proposto una interpretazione del rapporto fra le due religioni basata sullo scisma originario del popolo di Dio, provocato da Cristo stesso. «Nell’attuale cambiamento d’epoca, il rinnovato rapporto tra ebrei e cristiani è chiamato all’improcrastinabile compito di edificazione di una “civiltà dell’amore” secondo il disegno del Creatore. Vorrei sottolineare lo speciale vincolo spirituale che caratterizza le relazioni fraterne tra ebrei e cristiani e che trova nell’amore per Gerusalemme e per la “Terra di Santità” un centro e un cuore pulsante di fede, di venerazione e di pellegrinaggio orante. Si deve andare in Terra Santa. Come cattolici siamo partecipi, in una dimensione cristiana ecumenica, dei sentimenti di religioso attaccamento alla Terra dei Padri e della Promessa che il popolo ebraico ha costantemente sviluppato nei millenni della storia d’Israele fino ad oggi. Preghiamo che Gerusalemme diventi sempre più la “Città della Pace” per tutti gli uomini e le donne che amano la pace. Siamo perciò profondamente addolorati per le violenze e gli attentati esecrandi che ancora di recente hanno ferito la santa città, uccidendo giovani vite e profanando il Santo nome divino. Così come deprechiamo le espressioni di antisemitismo che si ripresentano, purtroppo, in Europa. La storia del popolo ebraico e di quello cristiano si ergono ad indelebile prova che non si dà libertà per la verità che non sia, nello stesso tempo, verità della libertà. Nella nostra Milano, metropoli plurale, la Comunità ebraica e quelle cristiane sono, a mio avviso, chiamate ad un compito profetico. Quello di essere un terreno fecondo in cui possa mettere radici e svilupparsi l’incontro e il confronto tra i membri di tutte le religioni, a partire dagli altri figli di Abramo, i musulmani. I nostri fratelli uomini ci trovino insieme testimoni della verità dell’amore e della pace».
Che cosa pensa dell’apertura dell’ambasciata palestinese presso il Vaticano e la Santa Sede? «Sicuramente e decisamente questo atto è stato fatto con molto coraggio per il desiderio che la pace diventi reale anche in quelle terre – ha risposto il Cardinale -. Questo è il mio giudizio sintetico. Sono assolutamente certo del fatto che tutti i Papi di questo ultimo periodo hanno voluto questo con grande forza, e che non c’è nessun intendimento parziale o di carattere politico, ma c’è realmente il desiderio di pace, nel rispetto della possibilità di tutte e tre le religioni di poter esercitare il culto, e nel rispetto del privilegio che ha il popolo ebraico. Non c’è altra cosa».

COMMENTI A MARGINE

A conclusione della visita, il canto dei Salmi da parte di Rav Elia Richetti, brano suonato dalla musicista Alessandra Romano con il “violino di Auschwitz”, e infine lo scambio dei doni.
«L’incontro in sé è stato sicuramente utile, il Dialogo inter-religioso soprattutto in ambito ebraico-cristiano ha una validità e una consuetudine tale che lo rende importante di per sé – ha commentato Paolo Sciunnach a margine dell’incontro -. Ritengo di grande rilevanza i punti sottolineati da Rav Arbib in merito al rapporto inscindibile fra l’ebraismo e la terra d’Israele, senza entrare in questioni politiche». D’altra parte, continua Sciunnach, il discorso del Cardinale è stato in linea con quella che è da sempre, almeno dal Concilio Vaticano II, la posizione della Chiesa in merito al rapporto con l’ebraismo, ribadendo la fratellanza e la comunione nelle parti bibliche dell’Antico Testamento, la radice comune. Quello che però non convince, nelle parole di Scola, è l’idea dell’unico popolo di Dio diviso da uno scisma interno. «In qualche modo, nella teologia cristiana non è chiaro che ruolo hanno gli ebrei in questo unico popolo diviso – dice -. Vero è, come ha sottolineato il Cardinale, che non possiamo sapere perché Dio ha voluto la scissione. Ma quello che mi lascia perplesso è il concetto dell’unità delle due realtà, che pur avendo una radice comune, sono molto diverse fra loro».
Una tentazione sincretistica pericolosa. Concorda con questa opinione anche Rav Elia Richetti, che spiega: «Questo aspetto della divisione di un unico popolo rappresenta per me un punto di domanda, che necessiterà di chiarimenti da parte della Chiesa. Significa che esiste una inscindibilità tale per cui ciò che è sacro per gli ebrei lo è anche per i cristiani (e allora sarebbe un fatto positivo)? Oppure implica un appiattimento delle differenze, che invece non è corretto (per il mondo ebraico la ricchezza sta proprio nelle differenze)?». Positive, però, nel discorso del Cardinale sono state la volontà di dimostrare la vicinanza al popolo ebraico e l’affermazione dell’identità ebraica dei luoghi sacri. «Molto importante – conclude Richetti– è che Scola abbia dichiarato che il dialogo interreligioso sarà completo solo quando il mondo islamico si allineerà su questa strada».