Un rabbino nel suo styudio. Perdonare se stessi è importante per perdonare gli altri

Per fare Teshuvà, bisogna sapere perdonare se stessi

Parole di Torah

di Daniele Cohenca
Nella puntata precedente, abbiamo affrontato il tema dell’approccio alla Teshuvà, al ritorno. In questa seconda parte, vedremo alcuni degli aspetti più pratici, visti sotto la prospettiva del pensiero di Rav Kook.

Innanzitutto, raramente viene il desiderio di fare Teshuvà; questa è una decisione che va presa consapevolmente. Ora, quando si decide di intraprendere questo percorso di miglioramento individuale dei propri pensieri, azioni e delle proprie emozioni, non bisogna cadere nella trappola della disperazione provocata dall’enormità degli errori commessi; una volta risvegliato questo senso di crescita, l’anima stessa ci aiuta a percepire che proprio questo è il segnale che il viaggio è iniziato. Questo sentimento di delusione, di presa di coscienza dei propri errori, è la prova definitiva che la Teshuvà ha preso posto nel cuore della persona e questo trasforma lo stato d’ansia in uno stato di piacere spirituale.
Prima ancora di chiedere perdono al Signore, “è indispensabile che uno perdoni sé stesso”: è davvero straordinario come Rav Kook riesca a portare tutto ad una dimensione intima ed individuale, ad una necessaria consapevolezza del proprio IO spirituale!
“Allo stesso modo come uno perdona il prossimo” – prosegue il Maestro “, deve perdonare sé stesso in modo sincero (Shmonè Kevazìm, Cap. 1)”.

“Le preoccupazioni che si annidano nel cuore della persona vanno estirpate; le cose buone sono fonti di gioia (Prov. 12:25)”. Abbiamo già visto nell’articolo precedente, come è importante che la persona si impegni a correggere quello che è in grado di correggere; ciò che invece non crede di essere in grado di cambiare, va semplicemente estirpato. L’impegno richiesto è quello di trasformare la propria anima, la propria parte spirituale più profonda, al meglio delle sue capacità: “impegnati nei confronti del Signore ed i tuoi piani verranno rispettati (Prov. 16:3)”. Il processo di Teshuvà è talmente profondo che non può essere compiuto in maniera totalmente autonoma, ma richiede un aiuto Superiore; ma l’avviamento deve essere opera della persona. In questo modo i nostri occhi vedranno improvvisamente il bene ed il buono che c’è in noi e questo è fonte di grande benessere e gioia.

Questo cammino richiede una grande presa di coscienza, come visto, ma anche una grande consapevolezza e conoscenza di sé stessi; possiamo mentire a chiunque, nasconderci e mascherarci: non possiamo mentire o nasconderci a noi stessi, né a Dio. Ognuno nel suo intimo conosce i propri limiti, ognuno è assolutamente consapevole di che cosa può migliorare ed in che cosa invece difficilmente riuscirà a crescere.
Bisogna dunque credere in sé stessi, dato che il nostro profondo IO, come detto, è puro e ci guida verso un cammino positivo. Il faro che guida questo cammino è la Torah; tutto ciò che ci porta lontano dalla Torah deve essere visto come un errore da correggere. La Torah appartiene ad ogni Ebreo allo stesso modo, ognuno ha le medesime potenzialità del suo prossimo. E’ quindi all’interno della Torah che va ricercato il proprio modo di essere.
La pratica delle Mizvòt è la nostra linfa vitale e deve essere vissuta con gioia, non come un ostacolo al nostro modo di essere o come un velo che ci separa dal nostro rapporto con il prossimo; allo stesso modo come siamo orgogliosi di “essere ciò che siamo”, dobbiamo essere orgogliosi di praticare i dettami della Torah.
Superficialmente vediamo dentro di noi “il falso Io”: spesso l’uomo è motivato dalla sua parte più materiale a cercare verità e saggezza laddove è più facile trovarle. Nel nostro essere più intimo risiede già “il vero Io, che non va cercato lontano da noi stessi.

Il rischio tuttavia è quello di cercare un’immediata ascesa a livelli superiori di moralità e spiritualità, mentre, come abbiamo già detto, è indispensabile che la passione che ci trascina in questo movimento di crescita ci porti a salire gradino per gradino. Quando saliamo su di una scala, guardiamo sempre verso l’alto, verso il piolo successivo e la fine della scala stessa; cercare di saltare un gradino può essere estremamente pericoloso se non addirittura fatale.

Il giorno di Kippur si avvicina e siamo avvolti da un’atmosfera di ansietà ed incertezza, siamo travolti dai nostri errori, siamo disperati per tutte quelle volte che abbiamo perso la pazienza fino a credere di essere delle cattive persone. A questo punto si aprono due strade dinnanzi a noi: una ci porta verso le distrazioni ed il soffocamento di queste sensazioni e ci dedichiamo a ciò che in realtà non ci soddisfa ma apparentemente ci appaga. La seconda, che è chiaramente indicata a coloro che vogliono vederla, si chiama Teshuvà: tornare a sé stessi.

(Foto: Maurycy Gottlieb, Rabbino nel suo studio)