Parashat Ekev. “Shemà”: l’ascolto, uno dei pilastri dell’ebraismo

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
È una delle parole più importanti del giudaismo, e anche una delle meno comprese. Le sue due citazioni più famose sono nella parashà della scorsa settimana e in quella di questa settimana: “Ascolta, o Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è uno” (Deuteronomio 6:4), e “Avverrà, se sicuramente ascolterete il Mio comandamento che oggi vi do, di amare il Signore Dio vostro e di servirlo con tutto il cuore e con tutta l’anima” (Deuteronomio 11:13) – è l’apertura del primo e del secondo paragrafo dello Shemà. Appare anche nella prima riga della parashà: “Avverrà, se ascolterai queste leggi” (Deuteronomio 7:12).

La parola, ovviamente, è Shemà. Ho sostenuto altrove che è fondamentalmente intraducibile in inglese poiché significa tante cose: sentire, ascoltare, prestare attenzione, capire, interiorizzare, rispondere, obbedire. È una delle parole-motivo del libro di Devarim, dove appare non meno di 92 volte, più che in qualsiasi altro libro della Torà. Più e più volte nell’ultimo mese della sua vita Mosè disse al popolo, Shema: ascolta, presta attenzione. Ascolta quello che sto per dire. Ascolta ciò che Dio sta dicendo. Ascolta cosa vuole da noi. Se solo voleste ascoltare… Il giudaismo è una religione dell’ascolto. Questo è uno dei suoi contributi più originali alla civiltà.

Le fondamenta gemelle su cui fu costruita la cultura occidentale, furono l’antica Grecia e l’antico Israele. Non avrebbero potuto essere più diverse. La Grecia era una cultura profondamente visiva. Le sue più grandi conquiste ebbero a che fare con l’occhio, con il vedere. Produsse alcune delle più grandi opere d’arte, scultura e architettura che il mondo abbia mai visto. I suoi eventi di gruppo più caratteristici – rappresentazioni teatrali e giochi olimpici – furono spettacolari: eventi guardati da tutti. Platone pensava alla conoscenza come una sorta di visione profonda, vedendo sotto la superficie la vera forma delle cose.

Questa idea – che conoscere è vedere – rimane la metafora dominante in Occidente anche oggi. Parliamo di intuizione, lungimiranza e senno di poi. Proponiamo un’osservazione. Adottiamo una prospettiva. Illustriamo. Illuminiamo. Facciamo luce su una questione. Quando comprendiamo qualcosa, diciamo: “Capisco”.

Il giudaismo offriva un’alternativa radicale. È la fede in un Dio che non possiamo vedere, un Dio che non può essere rappresentato visivamente. L’atto stesso di creare un’immagine scolpita – un simbolo visivo – è una forma di idolatria. Come Mosè ha ricordato al popolo nella parashà della scorsa settimana, quando gli israeliti hanno avuto un incontro diretto con Dio sul monte Sinai: “Avete udito il suono delle parole, ma non avete visto alcuna immagine; c’era solo una voce. (Deuteronomio 4:12). Dio comunica con i suoni, non con le immagini. Egli parla. Lui comanda. Lui chiama. Ecco perché l’atto religioso supremo è Shemà. Quando Dio parla, noi ascoltiamo. Quando comanda, cerchiamo di obbedire.

Il rabbino David Cohen (1887–1972), noto come il nazireo, discepolo di Rav Kook e padre di R. Shear-Yashuv Cohen, rabbino capo di Haifa, fece notare che nel Talmud babilonese tutte le metafore della comprensione si basano sul non vedere ma sul sentire. Ta shema, “vieni e ascolta”. Ka mashma lan, “Ci insegna questo”. Shema mina, “Deduci da questo”. Lo shemiyah lei, “Lui non era d’accordo”. Un insegnamento tradizionale è chiamato shamaytta, “ciò che è stato ascoltato”. E così via. Tutte queste sono variazioni della parola Shemà.

Questa può sembrare una piccola differenza, ma in realtà è enorme. Per i greci, la forma ideale di conoscenza implicava il distacco. C’è colui che vede, il soggetto, e c’è ciò che è visto ovvero l’oggetto, e appartengono a due regni diversi. Una persona che guarda un dipinto o una scultura o uno spettacolo in un teatro o ai giochi olimpici non è parte attiva dell’arte o del dramma o della competizione atletica. Agiscono come spettatori, non come partecipanti.

Parlare e ascoltare non sono forme di distacco. Sono forme di impegno. Creano una relazione. La parola ebraica per conoscenza, da’at, implica coinvolgimento, vicinanza, intimità. “E Adamo conobbe Eva sua moglie ed ella concepì e partorì” (Genesi 4:1). Questo è sapere in senso ebraico, non in quello greco. Possiamo entrare in relazione con Dio, anche se Lui è infinito e noi siamo finiti, perché siamo legati dalle parole. Nella rivelazione, Dio ci parla. Nella preghiera, parliamo con Dio. Se vuoi capire qualsiasi relazione, tra marito e moglie, o genitore e figlio, o datore di lavoro e dipendente, presta molta attenzione a come parlano e si ascoltano l’un l’altro. Ignora tutto il resto.

I greci ci hanno insegnato le forme di conoscenza che derivano dall’osservazione e dall’inferenza, vale a dire la scienza e la filosofia. I primi scienziati e i primi filosofi vennero dalla Grecia dal VI al IV secolo a.e.v.

Ma non tutto può essere compreso solo dalla vista e dalle apparenze. C’è una storia di grande impatto su questo argomento, raccontata nel primo libro di Samuele. Saul, il primo re di Israele, sembrava appropriato per questo ruolo. “Egli era al di sopra di tutto il resto del popolo” (1 Samuele 9:2, 10:23). Aveva l’immagine di un re. Ma moralmente, in termini di temperamento, non aveva affatto l’anima di un leader, aveva quella di un seguace.

Dio disse quindi a Samuele di ungere un altro re al suo posto e gli disse che sarebbe stato uno dei figli di Jesse. Samuele andò a trovare Jesse e fu colpito dall’aspetto di uno dei suoi figli, Eliav. Pensò che fosse sicuramente quello che Dio intendeva scegliere. Ma Dio gli disse: “Non considerare il suo aspetto o la sua altezza, questo è quello che rifiuto. Ciò che l’uomo vede non conta: l’uomo vede solo l’esterno, Dio guarda il cuore”. (1 Samuele 16:7).

Gli ebrei e il giudaismo insegnano che non possiamo vedere Dio, ma possiamo sentirlo e lui ci ascolta. È attraverso la parola, il verbo e l’udito che possiamo avere una relazione intima con Lui come genitore, partner, sovrano, Colui che ci ama e che noi amiamo. Non possiamo dimostrare Dio scientificamente. Non possiamo dimostrare Dio logicamente. Questi sono modi di pensare greci, non ebraici. Credo che da un punto di vista ebraico, tentare di provare logicamente o scientificamente l’esistenza di Dio sia un’impresa sbagliata. Egli non è un oggetto, ma un soggetto. Il modello ebraico è quello di identificarsi con Dio nell’intimità e nell’amore, così come nella meraviglia e nella riverenza.

Un affascinante esempio moderno è venuto da un ebreo che, per gran parte della sua vita, si è allontanato dal giudaismo, sto parlando di Sigmund Freud. Ha chiamato la psicoanalisi la “cura della parola”, ma è meglio descritta come la “cura dell’ascolto”. Si basa sul fatto che l’ascolto attivo è di per sé terapeutico. Fu solo dopo la diffusione della psicoanalisi, soprattutto in America, che la frase “I hear you” entrò nella lingua inglese come un modo per comunicare empatia.

C’è qualcosa di profondamente spirituale nell’ascoltare. È la forma più efficace di risoluzione dei conflitti che conosco. Molte cose possono creare conflitto, ma ciò che lo sostiene è la sensazione, da parte di almeno una delle parti, di non essere state ascoltate. Non abbiamo “ascoltato il loro dolore”. C’è stato un fallimento della capacità di essere empitici. Questo è il motivo per cui l’uso della forza – o del resto, i boicottaggi – per risolvere i conflitti è così profondamente controproducente. Potrebbe sopprime per un po’ la divergenza, ma ritornerà spesso più intensa di prima. Giobbe, che ha sofferto ingiustamente, è indifferente agli argomenti dei suoi consolatori. Non è che si ostina ad avere ragione: quello che vuole è essere ascoltato. Non a caso la giustizia presuppone la regola dell’audi alteram partem, «ascoltate l’altra parte».

L’ascolto è al centro della relazione. Significa che siamo aperti all’altro, che lo rispettiamo, che le sue percezioni e sentimenti contano per noi. Diamo loro il permesso di essere onesti, anche se questo significa renderci vulnerabili nel farlo. Un buon genitore ascolta il proprio figlio. Un buon datore di lavoro ascolta i propri lavoratori. Una buona azienda ascolta i suoi consumatori o i suoi clienti. Un buon leader ascolta coloro che sta guidando. Ascoltare non significa essere d’accordo, ma significa prendersi cura. L’ascolto è il clima in cui crescono l’amore e il rispetto.

Nell’ebraismo crediamo che la nostra relazione con Dio sia un tutorial continuo nelle nostre relazioni con altre persone. Come possiamo aspettarci che Dio ci ascolti se non ascoltiamo il nostro coniuge, i nostri figli o coloro che sono colpiti dal nostro lavoro? E come possiamo aspettarci di incontrare Dio se non abbiamo imparato ad ascoltare. Sul monte Horeb, Dio insegnò a Elia che non era nel turbine, nel terremoto o nel fuoco, ma nel kol demamah dakah, la “voce dolce e sommessa” (I Re 19:12) che io definisco come una voce che puoi sentire solo se stai ascoltando.

Le folle sono commosse da grandi oratori, ma le vite sono cambiate da grandi ascoltatori. Che sia tra noi e Dio o tra noi e gli altri, l’ascolto è il preludio dell’amore.

Di rav Jonathan Sacks zz”l