Vitello d'oro

Parashà Ki Tetzé. Ognuno ha una responsabilità nei confronti della società

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

C’è, a prima vista, una contraddizione fondamentale nella Torà. Da un lato ascoltiamo, nel brano noto come i Tredici Attributi della Misericordia*, le seguenti parole: “Il Signore, il Signore Dio compassionevole e misericordioso, lento all’ira, ricco di benignità e verità… ma che non assolve i colpevoli, ritenendo i discendenti responsabili dei peccati dei padri, dei figli e dei nipoti fino alla terza e quarta generazione.” (Esodo 34:7)

L’implicazione è chiara. I figli soffrono per i peccati dei loro genitori. D’altra parte, leggiamo nella parashà di questa settimana: I genitori non devono essere messi a morte per i loro figli, né i figli devono essere messi a morte per i loro genitori. Una persona sarà messa a morte solo per il proprio peccato. (Deuteronomio 24:16)

Il libro dei Re cita un evento storico in cui questo principio si rivelò decisivo. Quando Amazia fu ben affermato come re, giustiziò i funzionari che avevano assassinato suo padre. Tuttavia, non uccise i figli degli assassini, poiché obbedì al comando del Signore scritto da Mosè nel Libro della Legge: “I genitori non devono essere messi a morte per i loro figli, né i figli devono essere messi a morte morte per i loro genitori. Una persona sarà messa a morte solo per il proprio peccato.” (2 Re 14:5-6)

C’è una motivazione ovvia. La prima affermazione si riferisce alla giustizia divina, “per mano del Cielo”. La seconda, in Deuteronomio, si riferisce alla giustizia umana amministrata in un tribunale. Come possono i comuni mortali decidere fino a che punto il crimine di una persona è stato indotto dall’influenza di altri? Chiaramente il procedimento giudiziario deve limitarsi ai fatti osservabili. La persona che ha commesso il reato è colpevole. Coloro che potrebbero averlo influenzato non lo sono.

Eppure la questione non è così semplice, perché troviamo Geremia ed Ezechiele, i due grandi profeti dell’esilio nel VI secolo a. e. v. che riaffermano il principio della responsabilità individuale in modi forti e sorprendentemente simili. Geremia dice: In quei giorni non si dirà più: “I genitori hanno mangiato frutta acerba e ed i denti dei figli ne sono stati danneggiati”. Invece, ognuno morrà per il proprio peccato, ognuno che mangerà frutta acerba, avrà lui stesso i denti danneggiati». (Geremia 31:29-30)

Ezechiele dice: La parola del Signore mi è stata rivolta in questi termini: «Perché vendo nel paese d’Israele il seguente detto: «I padri hanno mangiato il frutto immaturo, e i denti dei figli sono rimasti ottusi?». Come è vero che Io sono vivo, dice il Signore, non avrete più motivo di dire questo detto in Israele! Tutte le persone appartengono a Me, come la persona del padre così quella del figlio, è Mia. La persona peccatrice morirà. (Ezechiele 18:1-4)

Qui i profeti non parlavano di procedure giudiziarie e responsabilità legali. Stavano parlando del giudizio divino e della giustizia. Stavano dando speranza al popolo in uno dei momenti più bassi della storia ebraica: la conquista babilonese e la distruzione del Primo Tempio. Il popolo, seduto e piangente presso le acque di Babilonia, avrebbe potuto rinunciare del tutto alla speranza. Venivano giudicati per le mancanze dei loro antenati che avevano portato la nazione a quella situazione disperata, e il loro esilio sembrava estendersi all’infinito nel futuro. Ezechiele, nella sua visione della valle delle ossa secche, sente Dio riferire che il popolo diceva: “Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è perduta”. (Ezechiele 37:11)
Lui e Geremia stavano consolando il popolo nel momento della disperazione. Il futuro delle persone era nelle loro mani. Se fossero tornati a Dio, Dio sarebbe tornato da loro e li avrebbe riportati nella loro terra. La colpa delle generazioni precedenti non sarebbe stata loro attribuita. Ma, se è così, allora le parole di Geremia ed Ezechiele sono davvero in conflitto con l’idea che Dio punisce i peccati fino alla terza e alla quarta generazione. Riconoscendo questo, il Talmud fa una dichiarazione straordinaria: dice R. Yose b. Hanina: Il nostro maestro, Mosè, pronunciò quattro sentenze su Israele, ma vennero quattro profeti e le revocarono… Mosè disse che il Signore punisce i figli e i figli dei figli per il peccato dei genitori fino alla terza e quarta generazione. Ezechiele venne e dichiarò: “Chi pecca è colui che morirà”. (Makkot 2b)

In generale i Saggi rifiutavano l’idea che i figli potessero essere puniti, anche per mano del Cielo, per i peccati dei loro genitori. Di conseguenza, hanno sistematicamente re-interpretato ogni passaggio che dava l’impressione opposta, cioè quella dove i figli fossero effettivamente puniti per i peccati dei loro genitori. La loro posizione generale era questa: Non si devono dunque mettere a morte i figli per i peccati commessi dai genitori? Non è scritto: “Ricadranno le iniquità dei padri sui figli”? – Lì il riferimento è ai figli che seguono le orme dei genitori [letteralmente “si prendono nelle loro mani le azioni dei genitori”, cioè commettono loro stessi i medesimi peccati]. (Berachot 7a, Sanedrin 27b)

Nello specifico, hanno spiegato episodi biblici in cui i figli venivano puniti insieme ai genitori dicendo che in questi casi i figli “avevano il potere di protestare/impedire ai genitori di peccare, ma non lo hanno fatto”. (Sanhedrin 27b; Yalkut Shimoni, I:290) Come dice Maimonide, chiunque abbia il potere di impedire a qualcuno di commettere un peccato ma non lo fa, è colpevole (cioè punibile, ritenuto responsabile) di quel peccato.

Allora, l’idea della responsabilità individuale è arrivata tardi nell’ebraismo, come sostengono alcuni studiosi? Questo è altamente improbabile. Durante la ribellione di Korach, quando Dio minacciò di distruggere il popolo, Mosè disse: “Un solo uomo pecca e Tu ti arrabbi con tutta la comunità?” (Numeri 16:22) Quando le persone cominciarono a morire dopo che il re Davide aveva peccato istituendo un censimento, pregò Dio: “Ho peccato. Io, il pastore, ho sbagliato. Queste non sono che pecore. Cosa hanno fatto? Lascia che la Tua mano cada su di me e sulla mia famiglia”. (Samuele II 24:17) Il principio della responsabilità individuale è fondamentale per l’ebraismo, come lo era per altre culture dell’antico Vicino Oriente.

In altre parole, la posta in gioco è la profonda comprensione della portata della responsabilità che abbiamo se prendiamo sul serio il nostro ruolo di genitori, di vicini, di cittadini e figli dell’alleanza. Dal punto di vista giudiziario, solo il criminale è responsabile del suo crimine. Ma, come implica la Torà, siamo anche i custodi di nostro fratello. Condividiamo la responsabilità collettiva per la salute morale e spirituale della società. “Tutto Israele”, dissero i Saggi, “è responsabile gli uni degli altri”. La responsabilità legale è una cosa, e relativamente facile da definire. Ma la responsabilità morale è qualcosa di completamente più grande, anche se necessariamente più vaga. “Che una persona non dica: ‘Non ho peccato, e se qualcun altro commette un peccato, questa è una questione tra lui e Dio’. Questo è contrario alla Torà”, scrive Maimonide nel Sefer ha-Mitzvot.

Ciò è particolarmente vero quando si tratta del rapporto tra genitori e figli. Abramo fu scelto, dice la Torà, unicamente perché «istruisca i suoi figli e la sua gente dopo di lui a osservare la via del Signore». (Genesi 18:19) Il dovere dei genitori di istruire i propri figli è fondamentale per il giudaismo. Appare sia nei primi due paragrafi dello Shema, sia nei vari passaggi citati nella sezione “Quattro figli” dell’Haggadah. Maimonide lo considera come uno dei peccati più gravi – così gravi che Dio non ci dà l’opportunità di pentirci – “uno che vede suo figlio cadere in cattive acque e non lo ferma”. Il motivo, dice, è che “poiché suo figlio è sotto la sua autorità, se lo avesse fermato il figlio avrebbe desistito”. Perciò al padre è imputato come se avesse attivamente fatto peccare suo figlio.

Se è così, allora iniziamo a sentire la sfidante verità nei Tredici Attributi della Misericordia. A dire il vero, non siamo legalmente responsabili per i peccati dei nostri genitori o dei nostri figli. Ma in un senso più profondo e amorfo, quello che facciamo e come viviamo ha un effetto sul futuro della terza e quarta generazione.

Raramente questo effetto è stato descritto in modo più devastante come nei libri di due dei critici sociali più perspicaci d’America: Charles Murray dell’American Enterprise Institute e Robert Putnam di Harvard. Nonostante i loro approcci alla politica molto diversi, Murray in Coming Apart e Putnam in “Our Kids” hanno emesso essenzialmente lo stesso avvertimento profetico di una catastrofe sociale in corso. Per Putnam, “il sogno americano” è “in crisi”. Per Murray, la divisione degli Stati Uniti in due classi con mobilità sempre decrescente tra loro “metterà fine a ciò che ha reso l’America America”.
La loro argomentazione è più o meno questa, a un certo punto, alla fine degli anni ’50 o all’inizio degli anni ’60, tutta una serie di istituzioni e codici morali iniziò a dissolversi. Il matrimonio venne svalutato. Le famiglie iniziarono a frammentarsi. Sempre più bambini crescevano senza i loro genitori biologici in una società instabile. Cominciarono ad apparire nuove forme di povertà infantile, così come disfunzioni sociali quali abuso di droghe e alcol, gravidanze adolescenziali, criminalità e disoccupazione nelle aree a basso reddito. Nel corso del tempo, una classe superiore si tirò indietro dall’orlo del baratro e iniziò a preparare intensamente i suoi figli a risultati elevati, mentre dall’altra parte dei binari i bambini stavano crescendo con poche speranze di successo educativo, sociale e lavorativo. Il sogno americano di opportunità per tutti si stava esaurendo.

Ciò che rende questo sviluppo così tragico è che, per un momento, le persone hanno dimenticato la verità biblica: ciò che facciamo non riguarda solo noi. Interesserà i nostri figli fino alla terza e quarta generazione. Anche il più grande libertario dei tempi moderni, John Stuart Mill (filosofo ed economista britannico, 1806-1873) era enfatico sulle responsabilità della genitorialità. Ha scritto: “Il fatto stesso, di causare l’esistenza di un essere umano, è una delle azioni più responsabili nell’ambito della vita umana. Assumersi questa responsabilità – conferire una vita che può essere una maledizione o una benedizione – a meno che l’essere a cui deve essere data non abbia almeno le normali possibilità di un’esistenza desiderabile, è un crimine contro quell’essere”.

Se non onoriamo le nostre responsabilità di genitori, allora, anche se nessuna legge ci riterrà responsabili, i figli della società ne pagheranno il prezzo. Soffriranno a causa dei nostri peccati.

Di rav Jonathan Sacks zl
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*Dopo il grave peccato del vitello d’oro, Mosè salì sul monte Sinai e implorò Dio di perdonare il popolo ebraico. Dopo che le sue suppliche furono accettate, Mosè sentì che era un momento propizio per chiedere a Dio di dare al popolo ebraico un modo per ottenere misericordia se dovesse cadere di nuovo in futuro. Mosè supplicò Dio di perdonare il popolo ebraico, Dio era d’accordo con Mosè e gli disse di aspettare su una montagna dove gli avrebbe mostrato la Sua gloria. Quindi Dio passò davanti a Mosè e proclamò i versetti che sono noti come i 13 attributi della misericordia (Middot Harachamim).

La loro importanza è sottolineata dal ruolo che svolgono nei nostri servizi di preghiera. Ogni giorno, quando molti ebrei recitano “Tachanun” (una preghiera confessionale), recitano i 13 attributi della misericordia, invocando la misericordia di Dio di fronte alle nostre trasgressioni. Ogni giorno di digiuno, che è un momento opportuno per pentirsi, viene recitata questa preghiera. La cosa più significativa è la frequenza con cui lo diciamo durante il servizio di Ne’ilah a Yom Kippur, il momento più sacro dell’anno.
Di Rabbi Dovie Schochet