Tribalismo in Medio Oriente: Kedar porta la soluzione degli otto Stati alla GECE

di Sofia Tranchina
In occasione della Giornata europea della cultura ebraica, si è tenuto nella Sinagoga Centrale di Milano un incontro con lo studioso di cultura araba e israeliana Mordechai Kedar, volto ad esplicare ed esemplificare la sua proposta del 2012 di promuovere un piano di pace Israelo-palestinese basandosi su una soluzione da lui chiamata «Emirati Palestinesi».

Kedar ha prestato servizio per 25 anni nell’IDF come esperto di gruppi islamici, questioni siriane, discorso politico, e tecniche della stampa e dei mass media arabi.

Per approcciare eventuali soluzioni tra Stato Ebraico e arabi palestinesi, Kedar sostiene prima di tutto la necessità di allargare lo sguardo a tutto il mondo arabo per capirne l’essenza. «Sarebbe assolutamente inutile tentare di approcciare la questione araba senza parlare arabo», ha dichiarato. Infatti, cercare di capire una cultura senza ascoltarne gli esponenti sarebbe terribilmente infruttuoso e mendace.

Per questo Kedar oltre a parlare fluentemente yiddish, ebraico e inglese, ha imparato perfettamente la lingua araba e ha investito molto tempo a studiarne la cultura. E da questi studi è emerso un dettaglio che, secondo la sua interpretazione, è fondamentale e centrale per capire i moventi degli arabi e lavorare verso una soluzione. Il dettaglio è il seguente: i popoli del Medio Oriente hanno una struttura sociale di tipo tribale.

Cosa significa, dal punto di vista antropologico, avere una società tribale? Significa che le divisioni in tribù impediscono al popolo di amalgamarsi in un unico Stato omogeneo, coeso e funzionale. La prova del nove proposta da Kedar è semplice: gli appartenenti a diversi gruppi contraggono matrimoni misti? Se la risposta è no, allora non si può parlare di popolo e, di conseguenza, non si può sperare in una Nazione che lo rappresenti.

Questo ragionamento ribalta tutte le logiche occidentali a cui siamo abituati, che sono alla base della retorica fallimentare che i mass media accostano alla questione palestinese.

Dal tribalismo insito nelle culture mediorientali deriva la percezione per cui alcuni Stati arabi sarebbero di successo e altri meno: Iraq, Siria, Libia, Yemen, Algeria, e Sudan sarebbero stati fallimentari, in quanto tentano di conglomerare in un unico Stato diverse religioni, etnie, o tribù (zoroastriani, drusi, cristiani, musulmani eccetera). Le diverse tribù si fanno la lotta tra loro e gli Stati rimangono invischiati in queste lotte intestine. Kuwait, Qatar, ma soprattutto gli Emirati Arabi, invece, sono Stati che funzionano perché ogni popolo è una Nazione: la leadership è ritenuta legittima e i cittadini collaborano per la riuscita del Paese.

Per proseguire con questo ragionamento fino a capire le proposte di pace avanzate da Kedar, è necessario prima fare un breve excursus sull’islam e sugli altri stati arabi.

Mordechai Kedar con Maurizio Molinari

 

Innanzitutto, non si può negare né trascurare un punto chiave della cultura islamica: l’Islam sarebbe la religione, l’unica veritiera, portata da Allah per sostituire le religioni false, ovvero ebraismo e cristianesimo. Ebrei e cristiani sarebbero dunque nemici dell’Islam, da combattere con la jihad. Jihad non è solo quella “della spada”, ovvero la guerra, le armi, gli aerei dirottati e così via, ma anche ogni singola azione che mina la stabilità dei nemici e li indebolisce: jihad economica, jihad dei media, jihad delle nascite, jihad della migrazione, jihad del matrimonio…

Dal punto di vista islamico, dunque, il successo dello Stato di Israele – ovvero il successo degli ebrei che pur venendo da diverse parti del mondo, incapaci di comunicare l’un l’altro, con lingue e abitudini e culture diverse, sono riusciti a costruire un unico, forte, democratico e funzionale Stato con una lingua franca -, è un pericolo per l’Islam stesso, in quanto rischia di permettere agli ebrei di ricostruirsi come popolo e di perseverare nella loro “falsa religione”.

Soltanto una volta capito questo si può comprendere l’avversione che l’islam porta nei confronti dello Stato Ebraico. Tuttavia, fa parte della religione islamica la possibilità di posticipare: tutti gli obiettivi che non sono raggiungibili sul momento possono essere posticipati alla generazione successiva o a quella dopo ancora.

Da questa attitudine derivano i due diversi atteggiamenti degli Stati arabi nei confronti di Israele: per gli Stati “di successo” come gli Emirati Arabi, Israele è semplicemente un’altra tribù, e ci si può convivere, almeno per il momento, con scambi commerciali, economici, turistici e via dicendo. «Il fatto che sia un pericolo per l’Islam non è in primo piano: Allah sceglierà quando occuparsene, ma per il momento Israele non può essere sterminata, e gli Emirati Arabi non se ne fanno un problema. Pospongono la questione».

Secondo gli “Stati fallimentari”, invece, Israele è uno dei pericoli maggiori, e se ne deve ostacolare l’esistenza in ogni modo possibile. Per questo gli arabi palestinesi non accettano e non hanno mai accettato la possibilità di una pacifica convivenza con Israele, di cui vogliono vedere soltanto una netta e definitiva distruzione.

Secondo il ragionamento proposto da Kedar in cui diverse tribù non fanno un popolo, siccome gli arabi cosiddetti palestinesi non si sposano tra i loro gruppi diversi, e «guardano a un rifugiato di cinque chilometri più in là come a uno straniero», non si può parlare nemmeno di popolo palestinese, e non si può dunque pensare di creare un unico Stato palestinese.

Ecco, dunque, che si giunge alla soluzione degli «Emirati Palestinesi» o la «Soluzione degli Otto Stati»: secondo Kedar se si facesse un unico Stato dal nome Palestina, le diverse tribù lotterebbero tra loro senza sosta. Bisognerebbe quindi spingere per una soluzione di otto Stati, divisi per le tribù: Gaza, Jenin, Nablus, Ramallah, Jericho, Tulkarm, Qalqiya, e Hebron Araba.

«Chiunque si ostini ad approcciarsi al Medio Oriente con una mentalità occidentale, rifiutandosi di adottare il punto di vista tribale del Medio Oriente stesso, si sta precludendo la possibilità di capirci qualcosa», spiega Kedar, portando l’esempio degli inglesi che invece «hanno imparato dai propri errori»: infatti, nel 1932, quando si sono ritirati dall’Iraq, hanno cercato di lasciarsi alle spalle uno Stato unico. Ma avevano fatto un conglomerato di tribù diverse e si sono lasciati alle spalle una terra piena di problemi. Quando nel 1971 si sono ritirati dal Golfo, invece, si sono lasciati alle spalle gli Emirati, una struttura rispettosa della grammatica sociale dei popoli che vi abitavano.

Russia e Israele: quali conseguenze sullo Stato ebraico?

La conferenza ha visto anche l’intervento del direttore di La Repubblica Maurizio Molinari, il quale ha chiesto a Kedar se l’indebolimento a cui la Russia va incontro possa avere conseguenze su Israele e quali.

Seguendo sempre un ragionamento per gruppi, Kedar ha ricordato che la fanteria russa non è di origine russa, ma di diversi gruppi etnici: tatari, baschiri, ceceni, kazaki, armeni, bielorussi e via dicendo. I soldati che cadono sul suolo ucraino per la corrente guerra non sono russi e non credono nella causa russa, il che li induce a covare una rabbia crescente. Se non oggi, probabilmente presto «l’aftershock di questa guerra potrebbe portare alla fine della Federazione Russa».

Il problema con Israele è che la Russia non va approcciata in modo prettamente politico: «bisogna avvicinarsi all’uomo», spiega Kedar, aggiungendo come esempio la frase iconica «basterebbe un solo singolo proiettile per cambiare le sorti dell’Ucraina».

«Netanyahu sapeva trattare con Putin, aveva costruito un rapporto con lui». La Russia non è una democrazia, e bisogna saper trattare con il cuore dell’essere umano. Cambiando l’uomo, con Bennet le relazioni con la Russia si sono deteriorate, anche perché il governo Lapid ha abbandonato le relazioni con l’Est per concentrarsi sull’Occidente. Inoltre, l’Iran è diventato sempre più presente in Siria e questo ha portato Israele ad essere più aggressivo nell’area colpendo le basi iraniane in Siria, con la conseguenza che la Russia ha iniziato a esprimere il proprio scontento. La Russia desidera infatti due cose: che il presidente siriano Bashar al-Assad sopravviva, e che rispetti il suo patto con la Russia di concederle vantaggio sui gas presenti nel territorio.