Rav Lau al Noam: “I valori ebraici sono eterni, e il popolo ebraico è unito in nome del legame con la Torah”

di Roberto Zadik
«Dovremmo sempre ricordarci chi siamo. Che discendiamo da Avraham, Itzchak e Yaakov e che ciascuno di noi possiede una particella del loro Dna e ha in sé qualcosa della loro peculiarità, della loro eccezionalità. Il peccato più grave per ciascuno di noi è disperdere il proprio potenziale, non elaborare l’eredità ricevuta: il chesed e la misericordia di Avraham, la ghevurah, il rigore e lo spirito di sacrificio di Isacco… Ogni educatore sa quanto sia importante valorizzare il potenziale dei propri ragazzi».

Così si è espresso il Rabbino Capo Ashkenazita di Israele David Lau nel corso di un magistrale davar Torah avvenuta il 14 marzo nella sala gremita della sinagoga persiana del Centro Noam. L’intervento di Rav Lau è stato la tappa conclusiva di una giornata intensa in cui il  Rav si è recato in visita in vari luoghi della Comunità milanese, dalla scuola ebraica alla sinagoga Centrale di via Guastalla.

«Ricordo ancora il mio insegnante a scuola, Rav Yaakov Singer – ha continuato – che invece di sgridarmi o punirmi perché lanciavo palline di carta nei capelli dei compagni di classe mi prese da parte e rivangando tutto il mio albero genealogico, nomi e cognomi dei miei nonni, bisnonni, avi e antenati, indietro fino a 39 generazioni di studiosi, mi faceva notare semplicemente che ero l’ultimo anello di una incredibile catena di personalità uniche, di grandi eruditi e maestri spirituali. Che cosa volevo farne di tutto questo? Buttarlo alle ortiche insieme alle palline di carta? Limitarmi a fare scherzi ai compagni? Mi sorrideva, era ironico e bonario ma fermo. Restai senza parole, ammutolito. Ma il messaggio era arrivato forte e chiaro. Insomma, non dovevo buttarmi via facendo cose stupide, non disperdermi ma realizzare il mio potenziale».

Perché abbiamo tutti un grande potenziale e il dovere di non sprecarlo, sia a livello individuale, sia sul piano collettivo.
«In queste settimane di proteste in Israele, sto assistendo a terribili divisioni e contrapposizioni rischiose per l’unità del nostro popolo. Perciò diventa importante ricordare l’eredità dei nostri padri e sapere che tutto quello che facciamo ha un significato. Ma per sfruttare al meglio le nostre potenzialità dobbiamo restare uniti, ricordando quali sono le nostre radici e da dove siamo venuti».

Rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano

 

Partendo dalle parashot fra Purim e Pesach, Rav Lau ha inoltre riflettuto sull’eternità dei valori ebraici e sulla centralità dell’unità del popolo in nome del legame con la Torah, un legame di unità che prescinde da provenienze e mentalità individuali. Ad introdurre la serata è stato il Rabbino Capo di Milano Rav Alfonso Arbib che ringraziando il Presidente del Noam David Nassimiha e il Rabbino del Noam, Rav Yaakov Simantov, ha sottolineato “l’importanza di riflettere sull’unità del popolo, tema della parasha di questa settimana, Vayakhel, quando Moshè ricompattò il popolo dopo l’episodio terribile del Vitello d’oro. Basandosi sul principio dell’unità del popolo che è «vitale per tutti noi», Rav Arbib ha sottolineato quanto «sia fondamentale trovare gli elementi comuni fra le persone e su come lo Shabbat, argomento di questa parashà, ci dia un messaggio su cosa significhi essere Comunità. L’unità non è semplicemente lo stare insieme quanto avere valori comuni anche in momenti difficili come quello ad esempio che visse Israele all’indomani del Vitello d’oro».

Tornando alla lezione di Rav Lau, questa si è focalizzata su quattro parashot. «La Parashà della Mucca Rossa dedicata al tema della purificazione – ha sottolineato – è profondamente legata ad altri tre brani del libro dell’Esodo, Shekhalim, Zachor e la parasha ha Hodesh che vengono lette in questo intenso periodo fra Purim e Pesach. Quest’anno, per la prima volta, non ci sono pause nella lettura di questi quattro brani e sempre la parashat ha Chodesh inizia il mese di Nissan. I saggi evidenziano che questi quattro brani sono strettamente inerenti ad alcuni simboli della festa di Pesach come i quattro bicchieri di vino dei sedarim, i quattro figli citati dell’Haggadà, le quattro promesse e i quattro verbi di liberazione».

È fondamentale accogliere l’uscita dall’Egitto nella propria soggettività, nella riflessione individuale: “siamo stati liberati dalla schiavitù non perché il lavoro fosse troppo pesante o facesse troppo caldo” ma per ricevere la Torà, per diventare testimoni e portare nel mondo la Volontà dell’Onnipotente, questo è il significato reale di questa liberazione (tihiyù kedoshim ki Anì Kadosh).

Successivamente, il Rav si è concentrato sull’importanza del legame con lo Stato di Israele come Terra insostituibile per il popolo ebraico. Dopo pogrom e massacri come quello di Kishinev in Moldavia, Theodor Herzl aveva previsto che ci sarebbero state delle difficoltà per una emigrazione in Eretz Israel. Così aveva ipotizzato una fuga in Uganda. Tuttavia, nessun ebreo “era disposto a rinunciare al legame con Gerusalemme”. Argentina, Birobijan e Russia: la ricerca di una terra ebraica per gli ebrei sarebbe fallita miseramente.

Rav Lau ha poi elogiato la multiculturalità della Comunità milanese e delle sue sinagoghe “in cui pur provenendo da origini e contesti diversi ci sediamo per dire le preghiere tutti assieme”, perché “l’eternità dei valori della Torah in un mondo in continuo cambiamento è ciò che ci unisce”. Citando un recente articolo del New York Times che si chiedeva come sarebbe stato il mondo nel 2100, il Rav ha aggiunto che “certo, non sapremo mai come cambierà il mondo, quali tecnologie ci saranno, quali guerre scoppieranno ma sicuramente, da qualche parte nel mondo, ci sarà sempre una donna che il venerdì sera accende le candele e prepara delle challot su un tavolo imbandito”.

Rievocando Purim, rav Lau ha ricordato il coraggio della Regina Ester che chiese al popolo un digiuno di tre giorni a Pesach per riuscire nell’impresa di far revocare al re il progetto genocidario voluto dai ministri della corte persiana: ma chiedere un digiuno a Pesach era qualcosa di impensabile! Tuttavia Ester chiedeva il sostegno di tutti, chiedeva l’unità e la comunione d’intenti per una impresa pressochè disperata. Perciò serviva qualcosa di altrettanto disperato e forte, tre giorni di astensione dal cibo, un digiuno proprio durante il seder di Pesach, l’unica festività in cui “mangiare non è semplicemente un bisogno fondamentale ma è una mitzvà, come nel caso della matzà.

Rav Yakov Simantov, rabbino della comunità persiana

 

Infine, in chiusura di serata, Rav Simantov, Rabbino della comunità persiana del Noam, ha ricordato alcune differenze fra la festa di Purim e quella di Pesach. “Abbiamo appena passato la festività di Purim” ha detto “caratterizzata dalla gioia esteriore, dai travestimenti, feste e lettura della Meghillà. Pesach invece è una festa profondamente interiore, ci sediamo in famiglia, in casa, attenti alla ritualità e alla catena della trasmissione, ovvero a tramandare la tradizione. Si festeggia in casa, e come dice la Torah, nessuno dovrebbe uscire fino al mattino dopo”.