L’occhio ebraico nella fotografia: Gerda Taro, Lee Miller e Robert Capa protagonisti del secondo incontro Kesher

di Sofia Tranchina
Identità camuffate, temerarietà e racconti in prima persona: il secondo incontro sulla fotografia ebraica condotto dallo storico d’arte Cesare Badini per Kesher ha portato alla luce la sensibilità storica e giornalistica ebraica. Robert Capa, Gerda Taro e Lee Miller i protagonisti dell’incontro organizzato da Kesher il 5 giugno: fotoreporter di prima linea che hanno documentato i maggiori eventi del ‘900, le guerre, le liberazioni, e la fondazione dello Stato d’Israele.

I primi due, Capa (nato Endre Friedmann) e Taro (nata Gerta Pohorylle), approdati entrambi a Parigi dopo tribolazioni che li hanno spinti lontani dai propri paesi di origine (l’Ungheria per Capa e la Germania nazista per Taro), si legano presto in una collaborazione artistica e in una relazione che durerà fino alla tragica e prematura morte di Taro.

Insieme si inventano un personaggio dallo pseudonimo mitteleuropeo dietro al quale pubblicare il proprio lavoro, per aggirare i pregiudizi antisemiti e le difficoltà che i loro ostici nomi stranieri possono creare: nasce così la figura di Robert Capa, fittizio fotografo americano approdato in Francia.

La sigla Capa-Taro va così a includere i lavori di entrambi indistintamente, finché Capa si riappropria del proprio pseudonimo e le firme vengono divise.

Raccontare la guerra da vicino è la loro caratteristica più spiccata: non più conflitti raccontati da lontano con lunghi teleobiettivi, ma con grandangoli che li spingono ad avvicinarsi a pochi metri dai loro soggetti.

Friedmann-Capa, arrestato in Ungheria per le simpatie comuniste, andato in Germania che deve presto lasciare per l’ascesa nazista, inizia la sua carriera pubblicando le fotografie di una conferenza del ’32 di Lev Trockij, il quale aveva vietato qualsiasi fotografia. Eludendo la sicurezza, infatti, Capa è l’unico ad avere del materiale pubblicabile.

Inizia così una fitta serie di reportage dei più importanti eventi del secolo: la guerra civile spagnola, la resistenza cinese in Giappone, la Seconda Guerra Mondiale, la fondazione dello Stato d’Israele e la guerra in Indocina.

Nel ’44 sbarca in Normandia con gli alleati, nel ’45 si fa paracadutare in territorio tedesco, in URRS cerca di eludere la censura sovietica, che gli sequestra ciononostante quattromila negativi.

Tutto questo lo porta, nel ’47, a cambiare drasticamente la professione del fotoreporter, fondando – insieme ai colleghi Cartier-Bresson, Seymour e George Rodger – una società cooperativa per proteggere il diritto d’autore e la trasparenza di narrazione: nasce la MAGNUM Photos.

Nel ’48 in Israele fotografa Ben Gurion durante la proclamazione dello Stato, e documenta le prime guerre con i paesi confinanti, l’inaugurazione di strade per l’approvvigionamento, e l’arrivo degli immigrati europei che costruiranno il nuovo Paese. Infine, in Indocina, durante il ritiro delle truppe coloniali francesi, all’età di 41 anni, calpesta una mina antiuomo che gli risulta fatale.

La compagna, Gerda Taro (a sinistra nella foto con Robert Capa), nata in Germania da una famiglia di ebrei polacchi, arrestata dai nazisti anche lei per le sue idee comuniste, scappa in Francia, dove conosce e si innamora di Capa, che la inizia alla fotografia.

Insieme partono per la guerra civile spagnola, dove fanno della fotografia una forma di militanza: testimone diretta della guerra, Gerda racconta il punto di vista dei combattenti repubblicani con originali inquadrature dal basso che isolano i soggetti. I civili, più ancora che i militari, sono il soggetto delle sue fotografie.

Nel ’37, a soli 26 anni, mentre viaggia aggrappata a un camion durante un trasferimento delle Brigate Internazionali, muore investita accidentalmente da un carro armato. La sua pietra tombale, realizzata da Giacometti, venne subito distrutta dai nazisti al loro arrivo a Parigi.

Lee Miller nell’esercito americano (U.S. Army Official Photograph)

Infine, Lee Miller, gentile legata al mondo ebraico tramite simpatie e relazioni, modella “magnetica con un pezzetto di ghiaccio nel cuore” (come la definì Gertrude Stein), seduce e collabora con alcuni degli artisti più eminenti dei suoi tempi, tra cui Man Ray e Picasso.

Spostandosi dall’altro lato della fotocamera, realizza dapprima fotografie surreali e metafisiche, in cui esplorò ampiamente la tecnica della solarizzazione, per poi passare ai reportage.

Portò nel mondo fotografico un occhio femminile, con una attenzione particolare per il corpo, fotografando mastectomie e posando in pubblicità per gli assorbenti.

Quando Vogue le commissiona i primi reportage, si dimostra capace di creare immagini dal forte impatto visivo, cariche anche di una sottile ironia grazie al suo occhio di riguardo per l’estetica del tempo.

Quando nel ’42 Eisenhower ordina che delle squadre di fotografi seguano le truppe alleate e producano il massimo di documentazione possibile (perché sarebbe arrivato “il giorno in cui qualche idiota si alzerà e dirà che tutto ciò non è mai successo”), la Miller viene accreditata come corrispondente, e rappresenta senza filtri la vita nei campi di concentramento. Le sue foto sono crude e reali, e lasciano attoniti gli spettatori, al punto che le vengono richiesti dei certificati di autenticità.

Insieme a David Shermann, la Miller, con la sua capacità di concettualizzare in una foto le proprie idee, entra nella casa di Hitler a Monaco di Baviera e si fa ritrarre nella sua vasca da bagno nell’atto di ripulirsi dall’orrore dei campi di concentramento.