GECE 2022. Dalla tragedia alla rinascita: le comunità ebraiche di Varsavia e Francoforte nelle parole dei loro rabbini

di Ilaria Ester Ramazzotti
La demografia delle comunità ebraiche, il ruolo del rabbino, la secolarizzazione e l’antisemitismo. Questi i temi alla base del dibattito intitolato ‘Dalla tragedia alla rinascita. Varsavia e Francoforte: due comunità europee così vicine e così diverse’, che ha visto ospiti il rabbino tedesco Avichai Apel e il rabbino polacco Michael Joseph Schudrich, proposto in occasione della seconda parte della GECE 2022.

Rav Avichai Apel, rabbino capo di Francoforte (nella foto la sinagoga) dal 2016, è nato a Gerusalemme nel 1976 e ha già svolto incarichi in Russia e Dortmunt. Membro del Consiglio dei rabbini europei, ha partecipato a diversi incontri della Comunità di Sant’Egidio. Rav Michael Joseph Schudrich, è il rabbino di Lodz e Varsavia e rabbino capo della Polonia. Nato a New York nel 1955, ha svolto incarichi anche in Giappone. Membro del Consiglio dei rabbini europei, si è opposto fortemente al divieto di macellazione ebraica nel 2018.

L’incontro, svolto da remoto in collegamento su Zoom, è stato introdotto dall’assessore alla Cultura della Comunità Ebraica di Milano Sara Modena e moderato da David Piazza, sviluppandosi a partire da dati demografici estrapolati da uno studio pubblicato nel 2018 da United States Holocaust Museum a cura del demografo Sergio Della Pergola. I dati confrontano il numero di appartenenti alle comunità ebraiche tedesche, italiane e polacche negli anni 1933, 1955 e 2018. In Italia, in particolare, vivevano 48 mila ebrei nel 1933, 35 mila nel 1955 e 27.500 nel 2018. In Germania, la popolazione ebraica ammontava a 565 mila persone nel 1933, 37 mila nel 1955 e 116 mila nel 2018.  In Polonia, gli ebrei erano tre milioni nel 1933, 45 mila nel 1955 e 4.500 nel 2018.

Michael Joseph Schudrich, rabbino capo della Polonia

Analizzando questi numeri, come è possibile sviluppare il tema del rinnovamento e della rinascita delle comunità ebraiche nei rispettivi paesi? Per rispondere, gli organizzatori hanno in primis proposto ai rabbini intervenuti di illustrare come le loro comunità hanno vissuto i 77 anni trascorsi dalla Shoah. E in che cosa sono diversi l’ebraismo polacco e quello tedesco, rispetto al passato? C’è oggi una nuova rinascita? Rav Schudrich, a proposito della situazione in Polonia, ha evidenziato quale “principale e atroce dato il fatto che prima della guerra ci fossero tre milioni e mezzo di ebrei, dei quali il 90% non era più in vita dopo cinque anni dall’inizio della guerra. Metà degli ebrei uccisi nella Shoah, oltre tre milioni, provenivano dalla Polonia e solo il 10% degli ebrei polacchi è sopravvissuto. Ma oggi, dove sono questi sopravvissuti e i loro discendenti? Quasi tutti se ne sono andati, perché nella Polonia comunista era difficile essere ebreo – ha sottolineato il rabbino -. Purtroppo, ed è stato un processo molto triste, altri dei sopravvissuti alla Shoah hanno deciso di non dire a figli e nipoti di essere ebrei. Un segreto famigliare durato spesso cinquant’anni, dal 1939 al 1989, anno della caduta del comunismo. Dopo quell’ultimo evento, è iniziato un periodo nuovo: molte persone hanno iniziato a raccontare di avere radici ebraiche. Negli ultimi trent’anni e oltre, migliaia di polacchi hanno scoperto di essere ebrei e pensano di tornare nel seno dell’ebraismo. I numeri che abbiamo visto oggi sono quindi un quinto o forse un ottavo di quel che dovrebbero essere”.

Ha approfondito il tema Rav Apel, spiegando: “C’è qualcosa di paradossale: se mi chiedeste dove sono i 45 mila ebrei che nel 1945 erano in Polonia, direi che sono parte dei 116 mila che si trovano in Germania. Una delle cose tristi e incredibili in questa vicenda è che dopo la Shoah le comunità ebraiche tedesche sono state ricostruite daccapo da ebrei polacchi. Di questo ci sono dei risconti: chi è rimasto in Germania non era un grande idealista, altrimenti sarebbe andato in Israele. Alcuni altri sono rimasti in Germania per obbligo, costretti dalla loro realtà, come per esempio persone salvate da uomini o donne tedeschi con cui poi si sono sposati. Non tutti hanno avuto la forza di andare in un altro posto, così alcuni sono rimasti in Germania e hanno costruito comunità. Di questi, alcuni se ne sono andati in seguito. Ci sono persone di quaranta o cinquant’anni che non hanno più gli amici con cui sono cresciuti in comunità, perché i loro coetanei sono andati via”.
Nelle comunità piccole, ha sottolineato il rabbino, diventa quindi difficile aprire scuole, asili o sinagoghe, seppur esista in Germania un’organizzazione centrale comunitaria che include le piccole realtà, per esempio offrendo eventi e attività giovanili di incontro. “Un’altra difficoltà sta nell’integrare ebrei di diversa provenienza: ungheresi, polacchi, russi, tedeschi” che oggi vivono in Germania. Ci sono poi ebrei con una bassa conoscenza dell’ebraismo che non capiscono perché dovrebbero essere membri di una comunità. Inoltre, in Germania una legge obbliga gli iscritti a versare alla comunità di appartenenza il 9% del loro reddito lordo.

“Di tutto questo deve occuparsi un rabbino in Germania: tanto insegnamento, tanto lavoro sociale e tante relazioni con le persone e le famiglie”, ha in seguito sintetizzato Rav Apel, in linea con Rav Schudrich sul secondo tema proposto dagli organizzatori: che cosa deve fare allora un rabbino nella sua comunità? Come si svolge il loro lavoro di rabbino? Il ruolo è solo interno alla comunità o anche esterno? Ci sono attività svolte con altre religioni o gruppi? Rav Schudrich ha spiegato a questo proposito: “Come rabbino la cosa più importante è essere in connessione con tutti gli ebrei che vogliono a loro volta restare in contatto, ma vorrei essere presente anche per quegli ebrei che sono in rapporto con me. La cosa che più importa è costruire una comunità ebraica, dare sostegno a ogni ebreo nel modo in cui vuole vivere la sua identità. Costruire una comunità significa però aprire sinagoghe dove si preghi con un minian, ma anche fare cultura, concerti, attività per bambini. In più, parte del mio lavoro è essere in contatto con il mondo esterno. Ho dei legami molto buoni con la Chiesa cattolica, poiché la Polonia è un paese molto cattolico, ma ho buone relazioni anche con altre organizzazioni, cristiane o musulmane, con il governo e le università, dove tengo conferenze a cui mi invitano. Partecipo altresì alle commemorazioni pubbliche di persecuzioni contro gli ebrei”.

La secolarizzazione in Polonia e Germania

Quale terzo tema all’ordine del giorno, David Piazza ha poi proposto il fenomeno della secolarizzazione, dell’allontanamento dalla vita religiosa, comune a tutti i paesi. Ma con quali specificità accade in Polonia e in Germania? E ci sono anche persone che tornano alla loro religione, che fanno teshuvà come succede in Israele? Rav Schudrich ha ribadito come in Polonia si assista oggi a un fenomeno contrario: molte delle persone cresciute senza religione, che non sapevano nemmeno di essere ebree, si sono avvicinate all’ebraismo. “Anche se c’è anche chi si è in un secondo tempo allontanato di nuovo e chi ha smesso di osservare mitzvot – ha detto il rabbino polacco -, la maggioranza di queste persone vuole esprimere la sua identità ebraica ritrovata. Ci sono infine quelli che, figli o nipoti di ebrei che avevano nascosto il loro ebraismo per sempre, non potrò più incontrare”.

Rav Avichai Apel
Rav Avichai Apel

Per quanto riguarda la situazione in Germania, rav Apel ha riferito di due fenomeni contemporanei: “Fino agli anni ’90 nelle città principali come Monaco, Francoforte e Berlino c’era una vita religiosa e comunitaria molto più forte rispetto a oggi. C’erano anche comunità chassidiche. A Francoforte erano attive tre sinagoghe e tre volte al giorno si pregava col minian. Con la scomparsa della vecchia generazione, la direzione si è tuttavia invertita. Dall’altro lato, c’è oggi anche una parte della generazione giovane che invece cerca molto il suo ebraismo e vuole studiare, tornare alle origini e vivere attivamente la comunità”. “In questo processo – ha aggiunto rav Apel – c’è anche la questione relativa a una nuova definizione di famiglia”. Anche questo tocca le giovani generazioni, oltre ai temi legati a ortodossia e riformati.

E che cosa dire riguardo l’antisemitismo, inteso non solo come violenza, ma anche come linguaggio o discorso d’odio, legato al conflitto arabo-israeliano oppure no? Ha risposto rav Schudrich: “Non so se oggi in Polonia, come in molti altri paesi, ci siano più antisemiti rispetto al passato oppure se oggi gli antisemiti non hanno più paura di dire ad alta voce quello che pensano. Sono originario di New York e credo che quello che adesso sentiamo riguardi molto anche gli Stati Uniti. In passato non ci saremmo sognati di sentire certe cose, ma da cinque o sei anni ha preso il via un pessimo fenomeno: chi prima non osava esprimere i suoi pensieri antisemiti, adesso non ha più timore di farlo. Comunque qui in Polonia c’è chi parla ma poi non agisce, non c’è violenza fisica: si è verificato solo qualche evento contro le cose. È qualcosa che definisco un antisemitismo classico e non correlato al conflitto arabo-israeliano, ma legato piuttosto alla destra estremista”. “Non ci sono dubbi che in Germania l’antisemitismo si stia rafforzando – ha poi riferito Rav Apel -: oggi le autorità sono contrarie in modo assoluto all’antisemitismo, ma fra alcuni cittadini esiste antisemitismo. Esiste anche nell’Islam estremista. Non fra i musulmani, quindi, ma fra gli estremisti. Per questi ultimi, è legato al conflitto arabo-israeliano. In Germania, vive oggi la quarta generazione della popolazione del Paese dopo la Shoah – ha concluso il rabbino tedesco -, una cosa che cambia i fatti: se la prima e la seconda generazione dopo la guerra avevano ancora la necessità di fare del bene alla comunità ebraica visto quanto era successo, la terza e la quarta generazione vedono le cose in modo diverso e non hanno inoltre alcun problema a criticare lo Stato di Israele”. 

Breve storia della comunità ebraica di Francoforte

A Francoforte sul Meno, le prime tracce di vita ebraica risalgono al XII secolo, quando la prima comunità si stabilì nell’area che oggi circonda la cattedrale. Ma il pogrom del 1241 e poi quello del 1349 minarono e posero fine alla locale vita comunitaria. Alcune famiglie ebraiche tornarono nel 1360, quando il Codice di residenza ebraico (Stättigkeit) concesse loro ancora una volta il diritto di abitarvi.

Nel 1464 agli ebrei della città fu invece assegnata una zona ai margini della città, dove in seguito emerse la Judengasse o ghetto di Francoforte. Con l’eccezione del biennio tra il 1614 e il 1616, fu il luogo in cui gli ebrei rimasero fino all’emancipazione del 1846.

Nel 1804 era stata nel frattempo fondata la nuova scuola Filantropica e la Comunità Ebraica di Francoforte divenne un centro di riforma religiosa. Come contro-movimento, il rabbino Samson Raphael Hirsch guidò la formazione della comunità ortodossa secessionista, che si unì per formare la Società religiosa israelita nel 1848. Oltre a numerosi luoghi di culto minori, c’erano la sinagoga principale nel quartiere ebraico, un altro tempio a Börneplatz, un terzo nel Friedberger Anlage, costruito nel 1907 per la comunità ortodossa secessionista, oltre alla sinagoga liberale di Westend costruita nel 1910.

Nel corso del tempo, numerosi membri della comunità ebraica della città sul Meno hanno assunto ruoli di primo piano nella vita culturale e politica di Francoforte, favorendo la nascita di molte istituzioni nate da fondazioni ebraiche o da cittadini ebrei, come l’Università Johann Wolfgang von Goethe e il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung. Francoforte è anche la patria di diversi famosi rabbini di vari gruppi religiosi, tra cui Samson Raphael Hirsch, Markus Horovitz, Nehemia Anton Nobel, Ceasar Seligmann e Georg Salzberger.

La situazione precipitò con l’avvento del nazismo. Se nel 1933 la comunità ebraica di Francoforte contava più di 30 persone, durante i dodici anni di dominio nazista la vita ebraica della città fu quasi cancellata. Molti membri della comunità riuscirono a scappare e lasciare in tempo la Germania, ma circa 12 mila ebrei di Francoforte furono messi a morte nei campi di sterminio.

La rinascita della comunità ebraica di Francoforte

Il 29 marzo 1945 l’esercito americano liberò Francoforte. Già nel luglio di quell’anno il rabbino Leopold Neuhaus, che era ritornato dal campo di Theresienstadt, fu incaricato dal governo militare statunitense di rifondare una comunità ebraica. Dopo gli anni del periodo nazista, solo pochi ebrei erano rimasti a Francoforte, cosicché furono dei sopravvissuti alla Shoah inizialmente ospitati nei campi profughi, in gran parte polacchi, gli antenati dell’attuale comunità ebraica della città.

Nel gennaio 1947 la comunità elesse il suo primo comitato esecutivo regolare, mentre il 1° febbraio 1948 emanò i suoi primi statuti del dopoguerra per poi diventare nel 1949 un ente pubblico con circa 800 iscritti. Una ulteriore crescita di iscritti si registrò nel 1956, quando in seguito alla rivoluzione ungherese altri ebrei giunsero dall’Ungheria e dalla Romania. Altri immigrati arrivarono nel 1968, dopo la Primavera di Praga e in seguito agli scontri antisemiti nell’ex Cecoslovacchia e in Polonia. Nel frattempo, la comunità aveva anche accolto numerosi israeliani.

In tutta la Germania, verso la metà degli anni ’80 la popolazione ebraica contava 35 mila persone, delle quali 4.500 a Francoforte. Dopo il 1989 venne invece più che triplicata da nuovi membri arrivati dall’ex Unione Sovietica. Oggi la comunità ebraica di Francoforte conta quasi 7 mila persone.

Breve storia della comunità ebraica di Varsavia

Oggi la Comunità Ebraica di Varsavia conta circa 700 iscritti e tre sinagoghe: la sinagoga ortodossa Nożyk, la sinagoga riformata Ec Chaim a Varsavia e la sinagoga Chachmei Yeshiva a Lublino, oltre a offrire diversi servizi comunitari. È formalmente rinata in base alle disposizioni della legge del 20 febbraio 1997 sui rapporti tra lo Stato e le comunità religiose ebraiche nella Repubblica di Polonia, mentre nel 2006 ha adottato un proprio regolamento interno. Entrambi i documenti costituiscono la base giuridica su cui oggi operano le comunità ebraiche del Paese. Queste strutture comunitarie costituiscono l’eredità morale e legale delle comunità ebraiche esistenti nel Paese fino a prima della Seconda guerra mondiale.

Sebbene gli ebrei fossero presenti nella regione della Mazovia dall’XI secolo, il documento più antico che conferma la loro presenza a Varsavia risale al 1414. La storia dell’autogoverno ebraico a Varsavia iniziò tuttavia solo alla fine del XVIII secolo. Una legge in vigore fino al 1775 incoraggiò gli ebrei a stabilirsi in tutta la provincia della Mazovia, escludendo Varsavia. Di conseguenza, alcune comunità si svilupparono a Praga, dove nel 1780 Szmul Zbytkower ottenne il permesso di fondare un cimitero ebraico. Successivamente, sotto il dominio prussiano, la comunità ebraica poté stabilire un proprio autogoverno: a cavallo del XVIII secolo, agli ebrei fu concesso il diritto di stabilirsi a Varsavia e di fondare due comunità distinte a Varsavia e Praga. Nel XIX secolo, la popolazione ebraica di Varsavia raggiunse l’apice del suo sviluppo. Dov Ber Meisels fu nominato rabbino capo della comunità nel 1856, quando gli ebrei rappresentavano il 26,5% della popolazione totale della capitale.

Nel 1914, la popolazione ebraica di Varsavia raggiunse i 337 mila abitanti (o il 38,1% degli abitanti della città) e formò la più grande comunità d’Europa del periodo tra le due guerre. Nel ventennio tra i due conflitti mondiali, le comunità ebraiche di tutta la Polonia facevano riferimento al ministero delle Denominazioni religiose e dell’Illuminismo pubblico. Era l’ente organizzatore della vita religiosa: finanziava il rabbinato, le sinagoghe, le case di preghiera, i mikveh e i cimiteri. Supervisionava inoltre le istituzioni comunitarie di macellazione, istruzione e assistenza. C’era poi un consiglio democraticamente eletto di 50 membri della comunità dell’epoca, che nominava tra i suoi membri una giunta composta da 15 membri.

L’ultimo presidente della Comunità Ebraica di Varsavia prima della Shoah fu Adam Czerniaków, nominato a tale carica dal Presidente del Comune di Varsavia Stefan Starzyński il 23 settembre 1939. Ricoprì l’incarico lasciato libero da Maurycy Mayzel, che aveva appena lasciato Paese. Il 6 ottobre 1939, quando la città fu occupata dai tedeschi, Czerniaków acconsentì a guidare lo Judenrat. In tale veste operò fino al 1942, quando in opposizione alla cosiddetta Large Liquidation Operation si suicidò il 23 luglio 1942. Fu il suo ultimo atto di disperazione e resistenza.

Nel 1946 la popolazione ebraica di Varsavia contava 18.000 persone. Nel 1949 incaricata fu fondata l’Unione religiosa della fede mosaica in Polonia, che faceva riferimento all’Ufficio per le denominazioni religiose del Ministero degli affari interni. L’Unione perse progressivamente alcune delle sue attività e vide diminuire i suoi membri a causa di diverse ondate di emigrazione. All’inizio degli anni ’70, il numero di iscritti passò da cinque a duemila. Nonostante ciò, le comunità ebraiche polacche hanno lottato per mantenere condizioni favorevoli alla vita religiosa, fornendo servizi di assistenza sociale e preservando il patrimonio culturale e materiale dell’ebraismo in Polonia.