Dall’accidia dantesca alla rinascita di sé e del senso del futuro. In una conferenza dell’AME le opportunità da cogliere in tempi di pandemia

di Ilaria Ester Ramazzotti
Pensiamo a chi è a casa da solo, a causa del lockdown. All’isolamento di chi è sano, ma non può uscire e nessuno lo va a trovare, come un nonno che non può vedere i nipoti. Una condizione in cui possono nascere sentimenti e comportamenti caratterizzati da noia, indifferenza e profonda malinconia. “Tre parole che si possono riassumere nel termine ‘accidia’, uno dei sette peccati capitali, – introduce Rosanna Supino, presidente dell’Associazione medica ebraica -. Per Dante, gli accidiosi sono colpevoli di scarso amore per il bene, così li ha messi nel quarto e quinto girone dell’inferno. In realtà è una non-voglia di mettersi in gioco, una non-voglia di resilienza; tutto manca di motivazione e questa mancanza trascina in un vuoto interiore”.

L’occasione del dialogo è offerta dalla conferenza Noia, indifferenza, malinconia: un contagio invisibile svoltasi online lo scorso 21 aprile, a cura di AME, e trasmessa in diretta sulla pagina Facebook dell’Ucei, che ha visti partecipi Luciana Harari, psicologa e psicoterapeuta, Rivkah Hazan, direttrice della scuola Merkos di Milano, insieme a Cesare Milani, monaco buddista e maestro della tradizione tibetana. “Ci hanno rubato il contatto fisico e tutti abbiamo sperimentato la fame di abbracci e di socialità – prosegue Rosanna Supino -; da questo possono nascere noia e svogliatezza, incapacità di mantenere la concentrazione, perdita di interessi mista a noia, indifferenza, indolenza. Ma per vivere abbiamo bisogno di socialità al pari che mangiare. La solitudine è come il digiuno, così dobbiamo attivarci per contenerne le conseguenze”.

Nella nostra società individualista, dove ci si aspetta che ognuno sia autonomo, questo disagio cresce molto di più che nelle società basate sul gruppo. Che cosa possiamo fare? Per cominciare, chi è più compassionevole ed empatico si sente meno solo. “Stare bene spiritualmente fa bene anche al fisico e può salvare anche dalla pandemia”, sottolinea la dottoressa. Vediamo di seguito le riflessioni e gli spunti proposti durante la conferenza per vivere al meglio il periodo pandemico, ritrovando chi siamo insieme alle giuste e proficue relazioni con gli altri.

Il senso del futuro di Noè, che sopravvive al diluvio e pianta una vigna per realizzare un progetto

“Nell’ultimo anno ho svolto come psicoterapeuta volontaria un servizio di supporto psicologico in collaborazione con l’ufficio sociale della Comunità ebraica di Milano – continua a riguardo Luciana Harari -, constatando come nel periodo dell’ultimo anno e del lockdown le persone esprimessero tematiche psicologiche notevoli: pandemic fatigue, paralisi del pensiero, ansia e paura del futuro, aumento dei disturbi psichici e psicosomatici, ma anche, nei genitori, un certo disorientamento educativo. Più di tutto mi ha colpito il ritiro sociale protettivo in casa, la fuga fobica di alcuni, chiamata anche sindrome della capanna, un ritiro nella propria abitazione che dà quasi benessere e protezione, come un rientro nell’utero materno”. Viviamo così un’età dell’incertezza caratterizzata dall’irruzione della morte, da angoscia e dal rifiuto di un nemico invisibile, o dal vedere l’altro come un nemico, ma anche dalla mancanza di un futuro visibile e dalla paura, tutte cose che hanno abbassato le difese immunitarie. “Disagi che precedono la malattia anche in persone normali: il virus ci destabilizzerà ben oltre il tempo della pandemia – evidenzia Harari -. Potremmo definire l’accidia come il peccato del silenzio interiore che occulta il male e perciò lo rende possibile”. “Gli accidiosi, come li definisce Dante, sono ‘degli sciagurati che mai furono vivi’, cioè in stato depressivo, frutto di una concezione individualistica, senza interesse per gli altri e con noia”.

Il vero demone, allora, potrebbe essere la mancanza di senso. Come si può guarire dall’isolamento? L’isolamento non è necessariamente solitudine, ci spiega la psicoterapeuta, può dare l’opportunità di riflettere sulla nostra esistenza, come terapia e ricerca del sé e della propria ricchezza interiore, con attenzione per sé e per gli altri, scoprendo chi siamo. “La solitudine può essere la cura dell’isolamento. Ma se anche il confronto con l’altro ci definisce, comprendiamo che si può essere vicini anche nella lontananza, sperimentando altre forme di vicinanza. Noi siamo esseri di relazione, nella più alta concezione della libertà e del rispetto, della solidarietà e della cura dell’altro. Il Covid ci ha insegato l’importanza delle relazioni”. Adesso, “dobbiamo ridarci la possibilità di un futuro, come Noè che sopravvive al diluvio e poi pianta una vigna, realizzando un progetto”.

L’opportunità di cambiare e di ritrovare la nostra natura e la vera felicità

“Noè pianta dell’uva, un frutto che cresce a grappolo – evidenzia a questo proposito Cesare Milani -, una cosa fortemente simbolica, perché come primo atto lui semina qualcosa che riproduce la molteplicità, il gruppo, l’insieme di tutti gli acini. È un paradigma della nostra società. Come esseri umani abbiamo due caratteristiche principali: siamo sociali e interdipendenti dall’altro. Non riconoscerlo è distruttivo”. “L’altra nostra caratteristica è di imparare dagli errori, che sono una opportunità se li riconosciamo come tali. E il periodo storico che viviamo, che ha tantissime componenti di drammaticità, ci sta dando opportunità uniche – approfondisce -. Pensiamo per esempio alla scuola, agli studenti totalmente disamorati per questa scuola che stanno riscoprendo il valore del contatto con i compagni e del ruolo dell’insegnante. Quando c’è la mancanza di una cosa, non solo desideriamo di riaverla, ma percepiamo il modo in cui ne abbiamo realmente bisogno e perciò vogliamo migliorarla. La vita di prima, nella realtà globale, si svolgeva su un binario suicida. Non solo per quanto riguarda lo sfruttamento sconsiderato dell’unica terra che abbiamo, ma anche per le spersonalizzazioni e il disinteresse totali verso gli altri”. Siamo stati pilotatati ed educati, anche attraverso i media, verso falsi valori e direzioni di felicità sbagliate, verso interessi egoistici o di un piccolo gruppo, materialismo, creando il vuoto, ci spiega il monaco buddista. “Adesso abbiamo l’opportunità di cambiare. La difficoltà di questo momento storico ci sta mettendo di fronte a tante criticità, che erano già presenti prima della pandemia”. “I problemi nascono dal negare la nostra vera natura, che è quella di essere felici se ci sentiamo utili per gli altri”. E tutti siamo corresponsabili dei cambiamenti, negativi o positivi. “La vera libertà è quella di poter pensare e di poter agire”. Anche nei contesti difficili “possono nascere le forme più alte di umanità, di poesia interiore, di profondità spirituale. Dipenda dalla capacità di essere resilienti”, di essere solidali, di saper gestire l’incertezza, di essere protagonisti del cambiamento che inizia da noi stessi.

Come la notte che precede il giorno e il buio che contiene le potenzialità della luce

Sempre in merito alla parte buona di quanto abbiamo vissuto e ancora viviamo in tempi di pandemia, “che di sicuro ha creato disagio e dolore, cose che tuttavia esistevano anche prima – evidenzia Rivkah Hazan -, tutto dipende da come impariamo a vedere le cose. La nostra vita di ebrei è tutta improntata a seguire l’esempio dei nostri padri”. “Mi ha sempre colpito la figura di Yossef: è l’unico fra gli avi che Torah definisce Tzadik, cioè un giusto. Questo perché Yossef ha vissuto tutti gli estremi e le situazioni possibili della vita: è nato principe, figlio di Giacobbe e della sua moglie prediletta; è stato prima invidiato e poi venduto come schiavo dai fratelli; ha perso tutto, ma non si è mai perso d’animo, nemmeno in prigione dove è rimasto per dodici anni; è diventato viceré d’Egitto, l’uomo che ha nutrito tutti durante la carestia. Yossef viene chiamato ‘giusto’ perché è sempre cosciente della presenza di HaShem, sa di essere una pedina essenziale del suo disegno. Di ogni occasione non vede l’avversità, ma l’opportunità: per lui ogni situazione è un trampolino per raggiungere traguardi che altrimenti non avrebbe raggiunto – mette in luce la morà -. Vorrei però proporre un approfondimento sulla sindrome della capanna. Siamo stati costretti a stare chiusi in casa, ma ho vissuto questo periodo come nella festa di Sukkot, la festa più gioiosa: a Sukkot proviamo gioia proprio perché dobbiamo abitare in una capanna, lasciando le certezze e le comodità della casa per rimetterci nelle mani di HaShem. Eppure è così che ci sentiamo liberi e sicuri, non insicuri. Molte persone durante la pandemia si sono sentite inscatolate in casa, ma basta cambiare visuale: una scatola può diventare la nostra protezione. Una scatola è composta da sei lati proprio come la nostra capanna, la sukkà in cui ricordiamo la protezione che HaShem ha dato agli ebrei per quarant’anni nel deserto. Una protezione data da sei nuvole: una sopra la testa, una sotto i piedi e quattro ai lati. Non per caso abbiamo sei precetti rabbinici che incorporano gli insegnamenti fondamentali dell’ebraismo – sottolinea Rivkah Hazan -: credere nell’esistenza e nella provvidenza di HaShem; non credere nell’esistenza di altre divinità; credere che HaShem è un’unità assoluta, non composita e onnicomprensiva; amare HaShem; avere soggezione di Hashem; proteggersi da sentieri estranei che ci portano lontano da HaShem. Invece di vederci confinati dovremmo quindi essere capaci di creare un cubo intorno a noi, dove sopra percepiamo HaShem, come nel primo di questi precetti”. Sotto di noi, mettiamo la nuvola che proteggeva da serpenti e scorpioni, come il secondo precetto che nega gli idoli. Di fronte a noi dobbiamo sentire il terzo precetto, ponendoci sempre di fronte HaShem. A destra mettiamo l’amore per D-o, mentre a sinistra Il rigore, il timore. Con la destra facciamo, con la sinistra respingiamo la negatività. Dietro di noi mettiamo la protezione dai pensieri negativi. In questo senso dobbiamo guardare avanti, in maniera positiva, non indietro, spiega la direttrice del Merkos. “Prima della luce c’è il buio; senza il buio non si può apprezzare la luce che viene dopo. Senza la notte, non viene il giorno. Senza l’inverno, non viene l’estate. Così, se questo periodo è stato per alcuni versi ‘negativo’, possiamo invece vederlo come la notte, l’inverno, il buio che contengono tutta la potenzialità per diventare luce, estate e giorno. Usciremo da questo periodo rafforzati, ci aiuteremo l’un l’altro, e un giorno guardandoci indietro vedremo che senza questa esperienza non avremmo potuto raggiungere certi traguardi”, rinunciando a tanto materialismo per riottenere valori che avevamo dimenticato, conclude la morà. “Spero che un giorno potremo dire di avere imparato da Yossef lo Tzadik”.

Qui il video della conferenza pubblicato sulla pagina Facebook dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane