I Maestri / «Molteplice è la pace dei tuoi figli»

di Rav Roberto Della Rocca

kook2_thumbSe vogliamo trovare un ponte tra le posizioni dei rabbini descritti nei due numeri precedenti del Bollettino (il Baal Shem Tov e il Gaon di Vilna), dobbiamo rifarci alla figura del Rav Avraham Itzchak Hacohen Kook, nato a Griva (Lettonia) nel 1865 e morto a Yerushalaim nel 1935.
Tutto il suo pensiero e la sua opera sono proiettati verso creazione di una mediazione tra misticismo e razionalità, tra chassidim e mitnagdim.
Questa duplicità, Rav Kook la porta nel suo stesso DNA, visto che il padre era di famiglia chassidica e la madre, invece, apparteneva a una famiglia di mitnagdim.
Il suo pensiero si sviluppa parallelamente ai fermenti del sionismo e alle grandi Alyòt dall’Europa dell’Est. Rav Kook si presenta come una figura determinante per la creazione del futuro Stato di Israele, divenendo un punto di riferimento sia per i chalutzim socialisti, sia per i religiosi che vivevano in Eretz Israel.
La sua filosofia, non sistematica, rappresenta un vero e proprio ponte tra il mondo laico e quello religioso, in un contesto nel quale la tradizione rabbinica è generalmente molto avversata.
Si forma nella Yeshivà di Volozin, ispirata agli insegnamenti del Gaon di Vilna e, equipaggiato anche di Qabalà e di competenze filosofiche occidentali (soprattutto Kant e Schopenhauer), nel 1904 si trasferisce in Eretz Israel dove viene nominato rabbino di Giaffa (Tel Aviv ancora non era nata).
Quando Gerusalemme diviene il centro dell’Yshùv, nel 1921, viene nominato Rabbino capo ashkenazita di Israele, il primo di una lunga serie, e in quegli stessi anni fonda quella Yeshivah che ancora oggi è legata al suo nome, Merkaz Ha Rav. Nonostante i rapporti tesi e complessi con il fondatore del Sionismo politico, rav Kook tenne su di lui un’appassionata orazione funebre, nella quale paragonò Teodoro Hertzl al “Mashiach ben Josèf” (Messia discendente da Josèf, e considerato, nella letteratura rabbinica, figura paradigma del combattente storico, destinato a morire, che interpreta la crisi e “le doglie del parto” che anticipano e spianano la strada alla redenzione finale) e al “Mashiach ben David”, Messia di stirpe davidica. Un paradosso che ci indica la concezione che rav Kook aveva del Sionismo quale preparazione di una salvezza terrena per un popolo interprete di una dialettica inesauribile tra la dimensione terrena e quella celeste, tra nazionale e religioso.
Nelle sue opere, quasi tutte in ebraico, tra le quali, Oròt HaQodesh (Luci del Sacro), Oròt HaTeshuvah (Luci della Teshuvah), Chazòn HaGheullah (Visione della Redenzione), Rav Kook sostiene che gli eventi storici e le azioni dell’uomo, qualunque sia la forma sacra e profana che assumono, testimoniano il disegno divino che trascende la capacità di coloro i quali lo mettono in atto.
Per questo motivo, secondo il Rav, gli ebrei religiosi devono sostenere attivamente il progetto sionistico, funzionale e prodromico alla redenzione messianica. Anche i pionieri trasgressori sono quindi, alla loro stessa insaputa, gli agenti di un piano divino e sovrannaturale che ha come obiettivo finale  la riunione di tutti gli ebrei nella loro terra. In questa linea Rav Kook spiega anche il paradosso dell’esilio del popolo ebraico, il quale non sarebbe altro che l’immagine speculare terrestre della rottura dei vasi al momento della Creazione, di cui parla la Qabalà sviluppatasi nel XVI secolo a Safed, con Itzach Luria.
L’attualità del pensiero di Rav Kook si manifesta soprattutto nella preoccupazione di avvicinare e valorizzare ogni ebreo. È noto lo stupore di alcuni suoi discepoli per la simpatia e l’affetto con cui Rav Kook si rapportava agli ebrei meno osservanti considerando anche loro, trasgressori dello shabbat e delle mitzvòt, come costruttori del nascente Stato ebraico e quindi tassello irrinunciabile dell’avvento messianico.
Rav Kook aveva fatto della disponibilità ad ascoltare anche le idee più lontane delle sue un metodo di vita. Visitava i kibbutzim non religiosi e con quei giovani pionieri ebrei che arrivavano dall’Europa Orientale, allevati secondo un’educazione laica e socialista, si fermava a parlare senza mai rinunciare ad esprimere le proprie posizioni che pure lo dividevano da loro. Questo perché Rav Kook era convinto che la pace può essere raggiunta solo nel rispetto della molteplicità delle idee, come scrive “verav shalom banaich (molteplice è la pace dei tuoi figli)”.
Rav Kook ci trasmette come nella visione della Torà non esista una dicotomia tra ciò che convenzionalmente definiamo “religioso” e ciò che chiamiamo erroneamente “laico”. Ogni ebreo, anche il più lontano, è in grado di avvicinare l’epoca della redenzione. E mette in evidenza come nella tradizione ebraica esista una inalienabile correlazione tra spirito e materia, tra cielo e terra, tra la creazione del mondo e la creazione dell’uomo. Ogni momento nel tempo e ogni parte del corpo sono coinvolti nell’osservanza dei precetti. Ma è soprattutto il nostro corpo a essere il luogo dove si esercita questa kedushà. Spirito e materia, anima e corpo. Un dualismo che non è dualismo, e che non può essere posto in parallelo con il Bello e il Brutto, e soprattutto con il Buono e il Cattivo.
L’uomo è pur sempre un essere a sé che non s’identifica né con gli animali e neppure con gli angeli. Non è solo materia o solo spirito, perché c’è spirito nella nostra materialità e materia nella nostra spiritualità. Per Rav Kook c’è la necessità di restituire a Israele un corpo fisico: la vera santità non si raggiunge isolando il sacro. Anzi, il sacro, se isolato, «non solo non può vincere, ma addiritttura inciampa e cade nella sua battaglia». La dimensione della kedusha, la sacralità, si realizza solo quando spiritualità e materialità, mutilate se disgiunte l’una dall’altra, si aiutano reciprocamente. «La Teshuvah completa, il ritorno di Israele alle sue origini, potrà realizzarsi soltanto quando, accanto al mondo dello spirito, ci sarà una conversione fisica. In questo senso, il rapporto del popolo ebraico con la Terra di Israele è unico nella storia dei popoli, perché non si può misurare con i criteri conosciuti dall’uomo».
L’amore per la terra di Israele diviene uno dei principi fondamentali del pensiero di Rav Kook, per la natura divina che si esprime in questa terra.
Ahimè, rav Kook morì prima della proclamazione dello Stato di Israele; ma sono stati i suoi discepoli a darci l’interpretazione di quel momento fondante della nostra identità, definendolo «l’inizio del germoglio della nostra redenzione». Ciò che per altri popoli sarebbe stato vissuto soltanto come un’entità politica, per il popolo ebraico assume connotazioni e significati più complessi. La separatezza, la distinzione netta tra i momenti laici e i momenti religiosi della vita è una lettura della realtà estranea alla Tradizione ebraica, per la quale non esiste una dicotomia tra il hol (laico) e il kodesh (sacro). Si tratta, dal punto di vista della tradizione, del riconoscimento della miracolosa sopravvivenza ebraica e della realizzazione di quello che era stato il sogno di decine di generazioni.
Lo Stato di Israele ci ripropone quindi l’incessante dialettica che accompagna il destino del popolo ebraico dove la storia si incontra con lo spirito, l’immanente con il trascendente e il tempo delle lacrime con il tempo della gioia.