L’odissea di Beau, uomo-bambino dalle mille paure

di Nathan Greppi
Ci sono film che non sono adatti a chi cerca nel cinema un’evasione dallo stress della vita di tutti i giorni, poiché lo stesso stress viene riversato in tali film dai loro registi, per i quali l’arte diventa una valvola di sfogo in cui rappresentare i propri problemi. Questo è senza dubbio il caso di Beau ha paura, pellicola diretta dal cineasta ebreo americano Ari Aster e uscita in Italia il 27 aprile.

Il film, della durata di quasi 3 ore, segue le peripezie di Beau Wasserman (Joaquin Phoenix), un uomo di mezza età insicuro e paranoico che vive da solo in una città abitata perlopiù da criminali e senzatetto, al punto da sembrare di trovarsi più in un paese del terzo mondo che negli Stati Uniti. Un giorno che deve andare a trovare sua madre Mona (Patti LuPone), donna di successo che vive in un’altra città, scopre che è morta in un tragico incidente. Per arrivare a casa sua per il funerale, si ritroverà a superare lungo la strada una serie di imprevisti surreali e imprevedibili, che lo costringeranno a fare i conti anche con questioni irrisolte legate alla propria infanzia.

Nonostante alcuni riferimenti a questioni sociali scottanti per il pubblico americano (poliziotti violenti e fuori controllo, veterani di guerra che tornano affetti da PTSD), i temi cardine dell’opera sono più di carattere psicologico: Beau è un uomo pieno di ansie, paure, legato alla madre da un ambiguo rapporto di amore-odio, che non si è mai legato a nessuna donna dopo la sua prima storia d’amore da ragazzino con la coetanea Elaine (Parker Posey). È come un eterno adolescente nel corpo di un uomo di mezza età.

Altro tema affrontato è la percezione che si può avere di essere perennemente controllati e di avere solo l’illusione di essere padroni del proprio destino. Una questione su cui la trama presenta alcune analogie con classici come Matrix e The Truman Show.

Joaquin Phoenix, anch’egli ebreo, risulta perfetto per la parte: nel corso della sua carriera, ha spesso eccelso nei panni del pazzo o megalomane (Il Gladiatore, The Master, Joker) o dell’uomo introverso e insicuro (Lei). Non fa eccezione nei panni di Beau Wasserman, il cui volto riesce a trasmettere insicurezza e angoscia talmente bene da contagiare lo spettatore.

Se la recitazione del protagonista è eccelsa, lo stesso non si può dire per la sceneggiatura: le situazioni folli e surreali in cui ci si trova spesso risultano cupe e inquietanti, ma nel complesso la trama risulta essere noiosa e ridondante, e la lunga durata di certo non aiuta. Mescolando humor nero e problemi esistenziali, Aster sembrava avere l’ambizione di creare un capolavoro a metà tra un romanzo di Franz Kafka e il cinema dei Monty Python. Il risultato finale, tuttavia, sembra più un incrocio tra una commedia che non fa ridere, un dramma che non fa piangere e un horror che non fa paura (o quasi). La prova che non basta avere grandi attori se ciò che sta sotto è inconsistente.

Joaquin Phoenix nel film ‘Beau ha paura’

Dichiarazioni controverse

Recentemente, il film ha fatto discutere anche per una dichiarazione del regista, che in un’intervista al giornale ebraico londinese The Jewish Chronicle ha definito Beau ha paura una versione ebraica del Signore degli Anelli, paragonando il viaggio di Beau in un mondo folle e assurdo a quello di Frodo nella Terra di Mezzo. Ha dichiarato inoltre di aver attinto molto alle opere di Sigmund Freud per il lato psicanalitico della storia.

Nonostante le sue parole, nel film non ci sono praticamente accenni all’ebraismo, se si eccettua il cognome vagamente ashkenazita del protagonista e il logo di un ente che assiste l’organizzazione della Shivà per la madre. Non solo, ma in più Beau viene visto tenere con sé per gran parte del film, idealmente come dono alla madre, una statuetta che ricorda abbastanza la Madonna con il bambino, di cui una versione più grande si trova nel cortile di casa di Mona.

La ricostruzione più attendibile sulla presunta “ebraicità” del film l’ha fatta probabilmente il giornale ebraico newyorkese The Forward: in una attenta analisi, si rileva come l’unico tema che il regista sembra legare all’ebraismo riguarda il rapporto di Beau con la madre, che dovrebbe in teoria ricalcare lo stereotipo della “Yiddish Mame” possessiva e onnipresente nella vita del figlio. Per il resto, non è un film ebraico, e di sicuro è lontano anni luce come qualità dalle opere di Tolkien.