I talenti di Claudine Chayo, attrice che interpreta Marlene Dietrich

di Fiona Diwan

Una presenza scenica convincente e intensa, una recitazione piena di brio e capacità di improvvisazione: il debutto di Claudine Chayo come autrice e attrice sorprende e colpisce chi, come me, la conosce da anni nei panni di scrittrice di racconti arguti (Sguardi, il suo primo libro) o ancora nelle vesti di una raffinata signora milanese di origini francesi-mediorientali, esito di quelle grandi famiglie ebraiche di Damasco e Beirut sbarcate in Italia a fine anni Quaranta o inizio anni Cinquanta: i Shammah, i Dwek, i De Picciotto, i Farhi, i Mizrahi, i Totah, un mondo cosmopolita e sofisticato che non esiste più, innamorato della cultura europea e capace di declinarla in modo originale come non avverrà più agli ebrei provenienti da quei luoghi. Ecco, Claudine Chayo è forse tra le ultime protagoniste e testimoni di quel mondo un po’ aristocratico, ormai irrecuperabile, fatto di plurilinguismo e di humour, di amore per l’arte, la letteratura e il savoir vivre, il piacere di vivere. Un mondo la cui lunga scia ogni tanto si riverbera nelle sale del Tempio di via Guastalla e che capita di cogliere ancora quando Claudine (insieme a sua sorella Myrna), vi si reca.

Così, nell’ampio e accogliente spazio del Mamu di Milano (Magazzino Musica, via Soave 3), va in scena questa piccola pièce piena di leggerezza e di grazia musicale, con Claudine Chayo che interpreta Marlene. La Dietrich, ovviamente, attrice dalla personalità profondamente anticonformista, spirito libero, disinibita e dotata di un’educazione fuori dagli schemi per i propri tempi, musicista e violinista, l’attrice che rigettò il passaporto tedesco all’indomani dell’ascesa del nazismo e rise sprezzante in faccia al Fuhrer che le chiedeva di diventare il volto del cinema della nuova Germania e del Terzo Reich. In un interessante gioco di specchi, con un monologo della durata di poco più di un’ora, Claudine Chayo dà voce ai pensieri e alla vita della Dietrich, agli episodi salienti della sua carriera, ai suoi amori travolgenti («ho detto mon amour due volte soltanto nella mia vita: a Edith Piaf e a Jean Gabin. Ho confezionato io stessa l’abito da sposa per Edith. E a Jean Gabin ho detto che aveva i più bei fianchi che avessi mai visto in un uomo», dice Marlene-Claudine).

Alberto Oliva e Claudine Chayo

Una drammaturgia davvero riuscita, un testo svelto e fortemente coinvolgente, a tratti commovente, firmato dalla stessa Chayo insieme a Alberto Oliva che ne realizza anche la regia (il titolo dello spettacolo è Marlene D. Memorie di una diva, di Claudine Chayo e Alberto Oliva, regia Alberto Oliva, al pianoforte il talentuoso Stefano Meani, con la collaborazione di Diana Ceni, costumi di Elisabetta Invernici).

Claudine Chayo canta per noi Lili Marlene e Edith Piaf. Rievoca come da ragazza Marlene suonasse il violino: ama la Serenata di Enrico Toselli perché le mette allegria ma smette di suonarla per protesta contro la guerra e la sostituisce con la Berceuse di Gounod al pianoforte. Ama le melodie dolci, le studia da sola, riceve i complimenti dell’insegnante per il suo talento.  Si presenta disinvolta e per nulla intimorita ai provini davanti a Erich Von Sternberg, il suo mentore e scopritore, incontra lo scrittore Erich Maria Remarque e se ne innamora perdutamente ma di un amore squisitamente platonico. Detesta gli effetti della celebrità che considera una scocciatura, il successo e la notorietà non le interessano, sono vacui e buoni per gli imbecilli, racconta.

Claudine-Marlene commuove infine con il monologo sulla solitudine, condizione con cui la leggendaria attrice si troverà a dover fare i conti quando, non più giovane, si mette a ricordare il passato: «essere soli non ha nulla a che vedere con la solitudine; si può cercare di riempire un vuoto come si riempie una casa deserta ma non si possono sostituire i passi della persona che camminava in quella casa, la persona che dava un senso al tuo essere, al tuo vivere, al tuo amare. Qualunque cosa si faccia, non si possono sostituire le persone amate. Bisogna abituarsi alla solitudine ma ciò non significa aver fatto la pace con essa. Così, soffri senza che nessuno ti guardi piangere, nessuno che abbia veramente pietà del tuo soffrire… Non sono uscita indenne da tutti questi anni, chissà che le mie ferite possano infine guarire…».