Uniti, contro una Europa secolarizzata

di Vittorio Robiati Bendaud

Un personaggio chiave. Una figura istituzionale nonché una specie di “portavoce-ambasciatore” di Papa Benedetto XVI° presso gli ebrei. Perché sarebbe proprio da lui che, “tecnicamente” dipende il dialogo tra cattolicesimo e mondo ebraico, Lui, il capo della Commissione Pontificia deputata a tale scopo. Stiamo parlando del Cardinale Kurt Koch, Presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, nonché Presidente emerito della Conferenza Episcopale Elvetica -ricoprendo il ruolo che fu del Cardinal Kasper-. Un incontro fissato per tempo questo, preparato con dovizia. Eppure, nell’ufficio del Vaticano, Monsignor Koch dichiara subito di avere poco tempo da dedicarmi. L’atmosfera è casuale, distratta, a dir poco sfuggente. La cautela delle risposte sembra voler confermare la mia impressione. Dopo le interviste a Alberto Melloni e a Marco Politi, eccoci giunti quindi al terzo appuntamento sullo stato di salute oggi del dialogo ebraico-cristiano. Ecco l’intervista a Monsignor Koch.

Eminenza, il Papa ha da poco incontrato il Rabbino Capo di Inghilterra, Lord Jonathan Sacks. Come valuta questo incontro?

“Molto buono, direi. Si è parlato anche della situazione del Dialogo. Il rabbino ha sottolineato -trovando concorde il Papa-, che l’Europa ha dimenticato la sua anima, riferendosi così alla cultura europea in generale e agli attuali sviluppi economici. È stato un incontro molto amichevole a cui ha presenziato anche il Rabbino Capo di Roma, rav Di Segni”.

Parlando di Dialogo, il pontificato di Benedetto XVI oscilla tra aperture, chiusure, vere e proprie crisi, basti pensare alla difficile e sofferta questione dell’Oremus. Come legge Lei questa situazione?

“Il Papa è molto vicino all’ebraismo. Personalmente non ravviso differenze tra Giovanni Paolo II e l’attuale pontefice, in quanto collaboravano molto strettamente. Papa Ratzinger è anzi, a mio avviso, colui che teologicamente ha preparato la vicinanza del suo predecessore al mondo ebraico. Per quanto concerne l’Oremus, il Santo Padre ha personalmente voluto stendere una nuova formula, maggiormente corrispondente alla fede cristiana e che non tocca la fede ebraica. In questo senso non è una preghiera per la conversione degli ebrei né per la missione agli ebrei, bensì una preghiera escatologica, una speranza per la fine dei tempi: se tutti i popoli verranno a Dio, anche gli ebrei possono riconoscere il Cristo, che è a nostro avviso il medesimo Messia che attendono”.

Ma il rapporto tra popoli cristiani e popolo ebraico, non è uguale né paragonabile ai rapporti che ciascuna di queste comunità ha con altri popoli e religioni. Il Cristianesimo nasce dall’Ebraismo e abbiamo in comune Torà e Profeti. Gesù stesso era ebreo. Come intendere la visione di cui Lei si fa interprete? Noi, gli ebrei, non siamo le “genti” straniere che dovranno salire al Monte del Signore…

“Penso che anche la fede ebraica abbia una visione escatologica universale. Non vedo la differenza…”

Eppure l’Oremus è legato ad una storia terribile, quella della teologia della sostituzione, delle conversioni forzate, dell’insegnamento del disprezzo. Penso che sia inevitabile e comprensibile che una tale riabilitazione sia suonata come una sconfitta del dialogo da parte ebraica e abbia ferito molte persone.

“È chiaro che se si legge questa preghiera nel solco della storia essa costituisce un problema. Ma penso che questa non sia la volontà del Papa: una preghiera nuova per una nuova fase del dialogo ebraico cristiano. Consideri che la Chiesa Cattolica dal Concilio Vaticano II in poi non ha più fatto una missione sistematica verso il mondo ebraico”.

Una domanda di natura liturgica, dato che Lei è un eminente studioso di liturgia: il Concilio Vaticano II ha riformato unicamente i riti latini, non i riti delle Chiese Cattoliche orientali, impregnati tutt’oggi di invettive antigiudaiche. È possibile intervenire in qualche modo, in particolare essendo Lei al vertice mondiale per i rapporti tra Chiesa Cattolica e Ebraismo?

“Non ho in mente tali liturgie, non conosco questi testi e quindi non posso rispondere”.

Le pongo questa domanda perché oggi le Chiese Orientali, e quelle Mediorientali in particolare, hanno problemi irrisolti di natura politica con lo Stato di Israele potenzialmente sfocianti in sentimenti antisemiti o antisionistici. La riforma di questi riti probabilmente aiuterebbe a una migliore comprensione del mondo ebraico e a smussare tensioni.

“Non vorrei dare un giudizio su realtà che non ho presenti, e dovrei studiare i testi cui si riferisce e che non mi sono noti. Presenziai al Sinodo sul Medio Oriente e non mi pare che i Vescovi nutrissero riserve verso l’ebraismo. Per quanto riguarda lo Stato di Israele è un’altra questione; si deve fare una distinzione tra la fede ebraica e lo Stato di Israele”.

Cosa possono fare oggi insieme ebrei e cristiani?

“Ebrei e cristiani hanno lo stesso Dio. La sfida principale è testimoniare la presenza di Dio nel mondo secolarizzato. Se Dio non è presente, la società ha molti problemi. Questa è una sfida che ebrei e cristiani possono affrontare in comunione. Penso anche che cristiani ed ebrei hanno in comune i Dieci Comandamenti, la grande via per essere credenti nelle nostre società. Credo inoltre che si debba approfondire il dialogo teologico tra ebraismo e cristianesimo, anche perché leggiamo la medesima Scrittura, seppur con interpretazioni e impostazioni differenti: questo non va inteso come un pericolo, ma come un arricchimento vicendevole”.

Eppure il Papa dice espressamente che nel rapporto con le altre religioni, i cattolici possono avere solo un dialogo per quanto attiene l’etica sociale, non la teologia.

“L’ebraismo non è una religione come le altre religioni: è la madre della nostra stessa fede. Quindi è chiaro che il dialogo con l’ebraismo debba essere un dialogo teologico”.

Cosa si può fare per incrementarlo?

“Questa è una responsabilità in primo luogo delle Conferenze Episcopali dei singoli Stati. Alcune Conferenze hanno anche un’apposita Commissione, come in Svizzera e in Italia”.

Un ulteriore momento di crisi tra Chiesa Cattolica ed Ebraismo si è verificato a causa dell’apertura del Papa ai Lefevriani. Durante la recente visita papale in Germania, i maggiori esponenti dell’ebraismo tedesco hanno manifestato al Pontefice il loro grande disagio per la serie di problemi che si sono succeduti in questi pochi anni, anche rispetto ai Lefevriani. Cosa pensa al riguardo?

“Quello dei Lefevriani è un problema aperto e non risolto. Il Santo Padre ha soltanto socchiuso una porta, ma loro non sono ritornati in seno alla Chiesa. Il Papa ha voluto avviare un dialogo, una possibile riconciliazione; non è stata una riabilitazione. È chiaro che il Santo Padre non nega il Concilio Vaticano II e la Dichiarazione Nostra Aetate sull’ebraismo. Ma tutte queste cose le abbiamo ripetute già molte e molte volte. Capisco che l’incidente che si è verificato con Williamson sia un grande problema; il Santo Padre però ha anche scritto una lettera di scuse e di spiegazioni. E io davvero non riesco a capire perché non si possano accettare la sua visione e queste sue scuse, accusandolo di una cosa che egli non ha voluto”.

Dato il ruolo strategico che Lei ricopre, ha progetti nuovi per rilanciare, migliorare e incentivare il dialogo tra ebraismo e cattolicesimo?

“L’ebraismo è il fondamento della Chiesa cristiana e dunque il Dialogo tra noi è fondamentale e doveroso. Non ho però progetti concreti”.