Svizzera. Due storie, una via: verso la libertà

di Redazione

Non tutti riuscirono a farcela, traditi dai passatori al confine, arrestati dalle milizie repubblichine o respinti dalle guardie di frontiera svizzere. Ma anche la salvezza comportò avventure e pericoli e mise molti ebrei  espatriati in una condizione imprevista

Ogni storia meriterebbe un racconto a sé. Stiamo parlando di quanti riuscirono a riparare in Svizzera durante la caccia nazifascista all’ebreo. Ecco Gualtiero Morpurgo che con gli sci ai piedi scivola tra le montagne, zaino in spalla e il suo violino a tracolla, strumento musicale che sarà compagno e sostegno nell’esilio (Il violino rifugiato, Mursia editore). E poi Massimo Della Pergola, che in Svizzera inventò il Totocalcio; l’economista Gustavo Del Vecchio, rettore della Bocconi dal 1934 al 1938, riuscito a fuggire in Svizzera nel ’43 e rientrato poi in Italia per diventare un importante statista; lo scenografo e illustratore Emanuele (Lelè) Luzzati che a Losanna frequentò l’Accademia di belle Arti… Storie di salvezza, opposte a quelle dei tanti respinti alla frontiera, come Liliana Segre e suo padre Alberto. Non tutti infatti riuscirono a farcela, traditi dai passatori al confine, arrestati dalle milizie repubblichine o respinti dalle guardie di frontiera svizzere. Una salvezza che comportò avventure e pericoli e che mise molti ebrei espatriati in una condizione imprevista.

I Bonfiglioli e il sistema svizzero di spoliazione dei profughi
Nel libro Gli occhiali del sentimento di Sabina Fedeli (Giuntina) sono riportate le testimonianze di Ida e le memorie di Renzo Bonfiglioli, che sono fra coloro che riescono a entrare in Svizzera. Dopo una fuga che non è stata certo né facile né indolore, nella Confederazione Elvetica inizia una serie di umiliazioni che la famiglia non si aspettava, essendo tra coloro che lì avevano depositi e beni. Giunti alla Casa d’Italia a Bellinzona devono fare la doccia. «Ci hanno fatto la disinfestazione perché secondo loro dovevamo essere pieni di pidocchi», racconta Ida. Devono spogliarsi davanti ai soldati, l’acqua è fredda, il figlio Geri, bambino, si ammala di polmonite. «Non è che ci trattassero molto bene, ma d’altronde in un paese come la Svizzera che non è mai stato in guerra la gente diventa egoista. Comunque capisco che non volessero in giro tutti questi rifugiati, per cui si stava in questa sorta di centro di internamento».

Molta gente non vuole attorno tanti ebrei, dice Ida. C’era la crisi economica, un alto tasso di disoccupazione, la vita non era semplice e la questione dei profughi passa in secondo piano. La Svizzera, come altri paesi, oltre a essere percorsa da ondate antisemite, teme una reazione da parte dei nazisti. Renzo avvia subito le pratiche per poter disporre dei suoi conti correnti e perché, di conseguenza, la famiglia possa essere “liberata” dal campo profughi. Dopo mesi, lo chiamano dall’ufficio centrale e gli domandano perché non abbia ancora fatto richiesta. “Una circostanza che mi mortifica vivamente”, si sfoga scrivendo alla Direzione generale rifugiati civili della capitale. Si sente impotente, ingabbiato dalle leggi dello Stato che si sommano a quelle interne delle banche che si sommano agli equilibri politici della Confederazione. Non aveva previsto che arrivato qui sarebbe stato sottoposto a provvedimenti di polizia e aveva creduto di poter disporre dei suoi denari, che ha comunque calcolato con troppo ottimismo. La risposta definitiva e senza appello è il congelamento dei beni.

“Pensavo che ci fosse di che stare tranquilli anche per un periodo di tempo considerevole; oggi la situazione mi appare ben diversa”. Il blocco totale da una parte, l’enorme deprezzamento dei titoli delle monete americane e inglesi dall’altro. I valori bancari dei rifugiati dovranno passare per la gestione della Banca Popolare. Nel ‘43 il Consiglio federale svizzero decide di sottrarre tutti gli averi ai profughi entrati “illegalmente” e di farli amministrare in forma fiduciaria alla Banca Popolare svizzera; si erano infatti creati problemi sia giuridici che organizzativi nei campi di smistamento dove il denaro era stato dato in custodia all’esercito. Inoltre si volevano coprire almeno in parte i costi di mantenimento dei rifugiati. La Banca Popolare svizzera si sforzò di tenere i conti correttamente ma tanti hanno rilevato che nel provvedimento dell’amministrazione erano stati inseriti stereotipi antisemiti, cavillosità, timori di concorrenza tra autorità federali, federazioni economiche e privati e “poi c’era molta discrezionalità da funzionario a funzionario”.

La famiglia Ascoli: oltre il confine grazie a persone “umane”
Una fuga avventurosa, in cerca della salvezza, quella della famiglia Ascoli, che Aurelio Ascoli, all’epoca tredicenne, rievoca con lucida commozione: “Vivevamo a Como sfollati, la mia famiglia ed io, in quel 17 settembre 1943, quando mio padre venne informato, da un amico che aveva contatti importanti, che i nazisti ci stavano cercando. Egli ci invitò a fuggire immediatamente nascondendoci in Svizzera tutti assieme, entro la sera stessa. Si diceva che al confine italo-svizzero, a San Fermo, ci fosse un buco nella rete di confine, ideale per darsi alla fuga. Per giungere a destinazione nel più breve tempo possibile, un altro amico, il signor Filippo Ostinelli, presidente del Comitato Italo Svizzero della Croce Rossa Internazionale, riuscì a rimediare una macchina di Servizio del Comitato. Guidata da un autista, la vettura era una Fiat 1100 “lunga” a sei posti e di colore nero e, sebbene non fosse un’autoambulanza, era una delle poche vetture, a parte i mezzi militari, che potessero transitare e fare rifornimento in quella zona senza necessitare di una previa autorizzazione. Così preparando il tutto assai rapidamente, alle 17.30, riuscimmo ad abbandonare la nostra casa in via Mugiasca con solamente una valigia e uno zaino di montagna che dovevano bastare per tutta la famiglia. Ci sedemmo nella vettura, mia sorella maggiore 21enne di fianco all’autista, la minore, di appena 3 anni ed io, sui sedili ribaltabili mentre i nostri genitori stavano nella parte posteriore. Fu un tragitto assai breve e, dopo mezz’ora, fummo costretti a fermarci a duecento metri dalla rete di confine.

L’autista infatti ci disse che era impossibile proseguire oltre. Infatti mancava davvero poco alle ore 19, in cui sarebbe iniziato coprifuoco anche per le vetture della Crocerossa. L’autista stesso ci esortò a percorrere quel sentiero che occupava duecento metri di prato. Formavamo una fila indiana, aperta da mia madre e da mio papà che indossava lo zaino, seguito dalla mia sorella maggiore con la valigia mentre per ultimo c’ero io che portavo sulle spalle la mia sorellina. Poco dopo l’inizio, il sentiero passava sopra un ponticello di pietra romano, situato sopra un ruscello che apprendemmo poi essere la fonte del fiume Seveso, su cui si trovava un finanziere che ci fermò chiedendoci cosa stessimo facendo lì a quell’ora. “Stiamo andando a fare una passeggiata” disse mia mamma in preda all’imbarazzo e arrossita sul volto come mai prima di allora perché, vista la sua correttezza, era disabituata alla menzogna. Scettico il finanziere rispose che non era affatto possibile che una famiglia con valigia fosse uscita a fare un giro poco prima del coprifuoco e di dirgli il reale motivo della nostra presenza.

Ci fu un momento di panico con i miei genitori che si guardarono fra loro non sapendo cosa fosse meglio rispondere. L’uomo sembrò subito capire la situazione e disse: “Se siete ebrei ditemelo subito, siamo fedeli al Re e al Generale Badoglio e, per questo, vi lasceremo passare”. Dopo qualche istante di silenzio, che ci sembrò eterno, mia madre con voce contrita non sapendo se fosse una trappola o meno, accennò ad ammetterlo. Il finanziere aggiunse “affrettatevi; fino alle sette c’è la Guardia di Finanza che vi lascia passare poi subentrerà la Milizia che vi arresterà e vi consegnerà ai tedeschi”. Cercando di accedere a quella apertura nella rete del confine, i miei genitori chiesero insistentemente ai Finanzieri se davvero ci fosse quella feritoia ma essi continuarono a negare. La loro resistenza era motivata dall’imminente arrivo della Milizia, mancava mezz’ora, e dal timore di essere arrestati per favoreggiamento dell’espatrio clandestino.

Durante la faticosa contrattazione, uno dei finanzieri che aveva le spalle molto larghe fece un cenno con l’occhio verso un lato della rete del confine anche se insisteva negando ci fosse una feritoia per la fuga. Posai la bambina a terra e mi addentrai dietro i cespugli alla ricerca di quel buco che, alla fine, trovai. Si trattava di un foro raso terra, nel cui spazio poteva passare a malapena una persona. Tornai indietro e tirai i miei genitori, strattonandoli per le maniche delle loro giacche, invitandoli a smetterla di perdere tempo e a seguirmi; mia madre mi zittì dicendo “i bambini parlano solo se interrogati”. Fu allora che il finanziere con le spalle larghe scoppiò in una fragorosa e cordialissima risata. Tutti capirono che io avevo ragione e la famiglia mi seguì dietro i cespugli lungo la rete di confine mentre i finanzieri voltarono generosamente le spalle. Così passammo tutti quanti e iniziò la nuova via verso la libertà.
(Testimonianza raccolta da Roberto Zadik)

 

 

Foto in alto: Campo di Rivesaltes (Pirenei Orientali). La Baracca svizzera del Soccorso ai fanciulli, 1941-1942 (Archivio federale, Berna)