Lia Koenig: «Recitare? È come fare l’amore con il pubblico»

di David Zebuloni

Vitalità ed energia, gioia di vivere e capacità di emozionarsi, di divertirsi e di ridere… Che cos’è che mantiene giovani? Il contatto con la gente e il pubblico, il lavoro di attrice, i progetti, confessa quella che oggi è una delle leggende viventi del teatro israeliano, un talento comico prodigioso. «L’idea di perdere la mia lucidità? Mi terrorizza. Perdere la memoria? Non ne parliamo. Ma credetemi: è molto peggio dimenticare una battuta sul palcoscenico che morire»

 

In uno Stato giovane come quello d’Israele, quasi non esistono leggende viventi. Non artisti e non cantanti che si siano ancora guadagnati questo titolo, certo non attori. Tra le poche, pochissime eccezioni, troviamo Lia Koenig, la First Lady del teatro israeliano, da molti considerata la più grande attrice che lo Stato Ebraico abbia mai conosciuto. Nata in Romania nel 1929, Lia è figlia e moglie d’arte. La madre, infatti, era Dina Koenig, la prima donna del teatro ebraico in Romania, uno dei più importanti in Europa. I due padri, quello biologico e quello acquisito dopo il decesso del primo, erano anche loro attori. Persino il marito, Zvi Shtulper, era un rinomato attore di teatro. Tuttavia, il successo straordinario della Koenig, è riconducibile solo ed esclusivamente al suo grande talento. Già nota in Romania per i suoi indimenticabili ruoli drammatici, ma con una spiccata e naturale indole comica, Lia è infatti migrata in Israele nei primi anni Sessanta da perfetta sconosciuta, senza sapere una parole di ebraico. Nonostante ciò, l’anno successivo al trasferimento, già ricopriva il ruolo di protagonista al teatro Habima, il più importante e prestigioso palcoscenico del paese. Ancora oggi, sessant’anni dopo, Lia parla con un piacevole accento dell’est Europa. Una cantilena lontana nella quale cullarsi. Vengo accolto nel salotto di casa sua a Givatayim, e da subito la First Lady del teatro israeliano si mostra per quella che è: un’attrice. “Sono molto malata, non mi rimane molto tempo da vivere”, mi risponde con tono funereo quando le domando come sta. Poi scoppia a ridere e mi rassicura: “Sto scherzando, sto benissimo, sono solo vecchia”. All’età di novantadue anni, Lia sembra tutto fuorché vecchia. Nonostante accusi alcuni acciacchi, la grande attrice calca i palcoscenici quasi ogni sera e dichiara di non aver nessuna intenzione di fermarsi. Quando le domando come immagina la sua ultima apparizione, Lia risponde senza esitare: “Sono troppo impegnata per pensarci”. Mi guarda e sorride complice. Le credo, il presente è troppo bello per pensare al futuro.


Lia, le confesso che all’età di ventisette anni, talvolta mi sento esausto, già pronto per la pensione. Lei, all’età di novantadue anni, sembra più in forma che mai. Qual è il suo segreto? 

Non sono una grande credente, ma comincio a pensare che qualcuno dall’alto si prenda cura di me. Sicuramente il fatto di dover studiare ancora decine di testi a memoria, aiuta molto. Io dico sempre ai miei colleghi di non smettere mai di lavorare, di non arrendersi. Il lavoro, il contatto con il pubblico, ci mantiene giovani. E poi, non vorrei deluderti, ma c’è anche un fattore biologico. Nessun segreto, solo una buona genetica in famiglia.

Cosa sa lei alla sua età, che noi giovani dobbiamo ancora scoprire? 

Che la vita è bellissima. Che solo i bei ricordi superano l’esame del tempo, mentre tutti gli altri vengono cancellati. Che è un gran spreco non essere ottimisti.

Dopo settant’anni di carriera, si emoziona ancora a salire sul palcoscenico? 

Non potrei fare l’attrice senza quell’emozione, avrei già smesso da tempo. Mi sono abituata agli applausi e ai lunghi silenzi, ad improvvisare nei momenti in cui dimentico il testo, a tante e tante cose, ma mai alla sensazione indescrivibile che provo nel secondo in cui salgo sul palcoscenico e vedo la platea.

Può provare a descrivere questa sensazione indescrivibile? 

Sì, direi che è come fare l’amore.

Scusi?

Hai sentito bene, è proprio come fare l’amore.

Anche alla sua età Lia? 

Cosa vorresti insinuare? Certo che sì, novant’anni non sono poi così in tanti. Molti attori pensano che esibirsi sia una pratica unilaterale, ma come l’amore anche la recitazione si fa in due. Io quando recito sento di respirare all’unisono con il pubblico, lo percepisco dentro di me. C’è una tensione particolare nell’aria, un desiderio di non deludersi a vicenda, di soddisfare e di soddisfarsi. A volte mi chiedono se non provo dolori sul palcoscenico. Certo che sì, le ginocchia e la schiena non mi danno pace, ma quando recito dimentico tutto. Tanto che non sento più nemmeno il dolore.

Parliamo un po’ della casa in cui è cresciuta. Cosa significa essere figlia d’arte? 

Significa vivere con il timore di essere apprezzati sempre e solo in funzione dei propri genitori. Anche all’età di novantadue anni, anche se oltre a te nessuno li ricorda più ormai.

Ricorda il momento in cui disse loro che voleva fare l’attrice? 

Certo, come se fosse ieri. Mio padre mi chiese immediatamente il perché di questa mia decisione. “È un lavoro così difficile Lia”, disse. E aveva ragione. Mia madre inizialmente stette in silenzio, poi si alzò e mi comunicò che se avessi voluto davvero seguire le sue orme, sarebbe stata lei a farmi il primo provino. Così, in mezzo al salotto di casa, mi ritrovai a recitare un monologo tratto dallo spettacolo Sholem Aleichem. Quando terminai, mia madre si avvicinò a me e disse: “Diranno di te che sei raccomandata, che sei brutta, che hai il naso lungo e il sedere grosso, ma hai un dono Lia. Sei una di quelle rare attrici che riescono a superare i confini del palcoscenico e toccare il cuore dello spettatore seduto nell’ultima fila”. All’epoca non capivo cosa volesse dire, oggi sì.

Qual è stato l’insegnamento più importante che le ha trasmesso sua madre? 

Forse ti farà un po’ ridere, ma un giorno le raccontai che durante uno spettacolo non riuscii proprio a piangere sul palcoscenico. Il mio personaggio doveva scoppiare in un pianto disperato, e io piansi con la voce, ma non mi scesero le lacrime dagli occhi. Lei ascoltò in silenzio e d’un tratto mi tirò lo schiaffo più forte che ricevetti in tutta la mia vita. Non mi aveva mai picchiata prima. “Ti fa male Lia?”, mi chiese severa e poi aggiunse con tono affettuoso: “Ecco, la prossima volta che devi piangere, ricordati questo dolore”. Ancora oggi, quando devo piangere sul palcoscenico, penso al suo schiaffo. Quanto vorrei poterne ricevere un altro, mi manca molto la mia mamma.

Credo che questo momento tragicomico racchiuda l’essenza della sua persona Lia, sempre al limite tra il dramma e la comicità. A quale mondo sente di appartenere di più? 

A entrambi, ma con una grande differenza: si può insegnare la tragedia, la commedia no. Posso insegnarti a far piangere gli altri, ma non a farli ridere. La comicità è un dono. Io e te possiamo raccontare la stessa barzelletta, ma la mia farà comunque più ridere della tua.

Perché? Possiamo provare.

Non ti conviene. Il comico ha un qualcosa nello sguardo, nell’intonazione della voce, nel ritmo del parlato, che è del tutto naturale. O ce l’hai o non ce l’hai. Non c’è niente di più patetico di un attore inconsapevole delle proprie capacità, che cerca di far ridere senza riuscirci. Alcune volte, durante i miei spettacoli più drammatici, è capitato che il pubblico scoppiasse a ridere. All’inizio mi offendevo, oggi invece capisco che c’è qualcosa di comico nella mia persona.

Crede che il teatro sia ancora rilevante per le nuove generazioni? 

Sono decenni ormai che sento dire che il teatro sta per estinguersi, che il cinema ha preso il suo posto, ma non è così. Le sale sono gremite, il pubblico più che mai cerca quel contatto ravvicinato che solo il teatro può offrire. Tuttavia, ritengo che le scuole debbano fare uno sforzo maggiore per educare le nuove generazioni alla cultura, abituare gli allievi alla bellezza dell’arte, portare le classi ad assistere agli spettacoli. Un paese che non sostiene il teatro, è un paese senza cultura. E un paese senza cultura, non è un paese.

In molti l’hanno riscoperta quando ha recitato in Shtisel. Com’è stato abbandonare per un attimo il sipario e dedicarsi al piccolo schermo?

Shtisel ha qualcosa di magico, non a caso ha avuto così tanto successo nel mondo. Non sono mai stata ortodossa, ma provengo da quella cultura ashkenazita ormai lontana e poter recitare in yiddish mi ha provocato un piacere indescrivibile. Poi in Shtisel quasi non si parla di religione, bensì di cosa voglia dire vivere in una famiglia allargata così piena di colori.

Lei ha deciso di non allargare la sua famiglia. Lei e suo marito avete scelto di non avere figli. Perché?

Non credo sia stata una vera e propria scelta. Io e mio marito non abbiamo mai deciso di non averne, ma non abbiamo mai nemmeno deciso di averne. In realtà è un argomento del quale non abbiamo quasi mai parlato. Non ne sentivamo il bisogno, non era la nostra priorità. Eravamo presi dalla nostra carriera e d’un tratto ci siamo accorti che era troppo tardi. Quando mio marito era ricoverato in ospedale, ormai in letto di morte, accanto a lui vi era un paziente circondato da tutta la sua famiglia. Improvvisamente mi prese la mano e disse: “Forse abbiamo sbagliato Lia, forse dovevamo anche noi avere dei figli. Chi ti porterà la tua tazza di tè quando io non ci sarò più?”. Non gli risposi, ma aveva ragione lui.

Ora che lui non c’è più, chi le porta la sua tazza di tè Lia? 

Fortunatamente sono circondata da brave persone, amici di famiglia che si prendono ancora cura di me.

Qual è la domanda più frequente che riceve da quando ha festeggiato il suo novantesimo compleanno? 

Mi chiedono sempre più spesso se ho paura della morte.

Perché crede che alle persone interessi tanto? 

L’uomo è curioso di natura, noi ebrei forse lo siamo ancora di più. E poi tendiamo a proiettare sempre le nostre paura sugli altri. In questo caso, la paura della morte su di me, che a novantadue anni sono effettivamente vicina al capolinea.

E non le fa paura l’idea di essere vicina al capolinea? 

No, in alcun modo.

Cosa le fa paura allora se non la morte? 

L’idea di perdere la mia lucidità, mi terrorizza. Perdere la memoria? Non ne parliamo. Credimi, è molto peggio dimenticare una battuta sul palcoscenico che morire.