La doppia guerra di Luciano

di Ester Moscati

Dalla Resistenza all’Indipendenza di Israele.

Un dromedario, con la testa alta e un’aria di serafica austerità, in filo di ferro intrecciato, è appeso alla parete. “Curioso, vero? Sa chi lo ha fatto? Mio cugino Primo, Primo Levi. La sera, spesso prendeva il filo e creava animali bellissimi”. Storico dell’economia, nato a Torino il 21 giugno 1929, Luciano Segre insegna ancora oggi all’Università degli Studi di Milano, dopo essere stato docente all’Università Bocconi e per dieci anni professore di Storia e Filosofia alla Scuola ebraica di Milano. È uno degli ebrei italiani – pochi – che nel 1948 scelse di andare a combattere nella guerra d’Indipendenza di Israele.


Responsabilità e impegno. Vorrei partire da queste due parole e capire in quale tipo di famiglia sia maturato un ragazzo che prima di finire il liceo aveva già fatto la scelta partigiana, nelle fila di Giustizia e Libertà, e nel 1948 decise di arruolarsi nel Palmach.

La mia è una vecchia famiglia di antifascisti; Carlo Levi, lo scrittore, era primo cugino di mio padre, il mio prozio era Claudio Treves uno dei fondatori del Partito Socialista Italiano; sono cugino di Primo Levi perché le nostre mamme erano sorelle. Nonostante i dieci anni di differenza, siamo cresciuti come fratelli. Parenti erano anche Vittorio Foa e altri di quelli che già nel 1935, prima delle Leggi Razziali erano stati processati e incarcerati dal Tribunale Speciale come oppositori al regime. Dopo il 25 luglio del 1943, con la caduta del fascismo, sono stati liberati. Non subito, perché in quell’“interregno” badogliano passarono quasi 40 giorni prima che rilasciassero gli antifascisti. Mussolini era caduto, ma Badoglio continuò la guerra a fianco dei tedeschi fino all’8 settembre. Vittorio Foa venne a trovarci sulle colline torinesi dove eravamo sfollati, nella villa di mio nonno, perché Torino era sotto i bombardamenti.
Immediatamente dopo l’armistizio, Foa tornò, con Franco Venturi – lo storico dell’Illuminismo – ad avvertirci di fuggire, perché loro, militando nei movimenti clandestini, avevano capito subito che i tedeschi avrebbero occupato. Così abbiamo lasciato la casa sulla collina, e siamo andati prima nelle Langhe, dove siamo stati denunciati, poi nell’astigiano, ma anche lì siamo stati denunciati e sono venuti a prenderci tre fascisti. Mia mamma – papà era morto già quando io ero molto piccolo – ha dato loro tutti i soldi che avevamo, e quelli hanno detto che sarebbero tornati il giorno dopo per deportarci. Allora siamo scappati in montagna, a Val Della Torre, sulle Alpi. Lì era zona partigiana; io avevo quattordici anni e mio fratello Bruno tredici. Ero molto giovane, ma la possibilità di fare qualcosa contro il fascismo ci rendeva intimamente già liberi. La formazione che combatteva in quella zona era Giustizia e Libertà, che la mia famiglia aveva contribuito a fondare; io, abituato fin da piccolo a camminare in montagna, ho partecipato soprattutto come messaggero.

Che cosa a fatto dopo la liberazione?

Sono tornato a scuola, dopo aver superato gli esami che furono organizzati per giovani partigiani, per non perdere gli anni di studio. Io avevo sedici anni e ho fatto gli ultimi due anni di liceo. Poi mi sono iscritto all’Università e lavoravo per pagarmi gli studi. Eravamo nel 1947 e si iniziava a parlare della questione palestinese, la spartizione del territorio del Mandato Britannico. Il conflitto era già iniziato tra i seicentomila ebrei e i novecentomila arabi che vivevano sul quel territorio. Io non ero sionista; pensavo che l’antisemitismo moderno fosse un fenomeno legato alla dittatura nazifascista e che caduto il regime noi ebrei avremmo potuto scegliere di vivere dove volevamo, come qualunque altro cittadino.
A distanza di tempo, pensando che ancora oggi non ci sono laggiù due liberi Stati che vivono in pace, e che l’antisemitismo è ancora diffuso, dico meno male che c’è Israele; è una grande remora anche verso l’antisemitismo, dà forza agli ebrei, che non sono più alla mercé del prossimo né disposti a farsi condurre passivamente al macello. Soprattutto va apprezzata l’idea di voler creare qualcosa di più “giusto”, non solo “forte”. Ma allora non ero sionista.

Mio fratello Bruno, invece, scelse subito di andare in Israele, già nel 1946. Disse che non poteva vivere in Europa, dopo quello che ci aveva fatto. Mia mamma Jole non cercò di fermarlo, anche se era poco più che un bambino. Aveva frequentato dei gruppi della Brigata Palestinese che facevano parte dell’esercito Alleato e organizzavano riunioni con giovani ebrei. Si era imbarcato clandestinamente su una nave della Sochnut, nei pressi di Livorno, ma l’imbarcazione fu intercettata dagli inglesi e Bruno finì in un campo di concentramento a Cipro per quasi un anno, dove faceva la fame. Mia madre, tramite Bolaffi, che aveva un amico filatelico nel comando inglese a Nicosia, riusciva ogni tanto a fargli avere un pacco di cibo. Siccome aveva solo quindi anni, alla fine lo lasciarono andare in Palestina, prima della dichiarazione di indipendenza di Israele. Andò in Kibbuz, prima a Givat Brenner, poi a Ramat Hachovesh. Oggi vive a Haifa.

A Torino, gruppi di giovani ebrei sionisti si incontravano, desiderosi di “fare qualcosa” perché quello si prospettava per gli ebrei in Erez Israel era preoccupante. Partecipai ad una riunione, un po’ per caso, con mia mamma. Un ragazzo fece un discorso molto infiammato: “Non si può più aspettare, bisogna andare ad aiutarli”. Io ci ho creduto subito. Eravamo stati tutti molto colpiti dalle sue parole, anche se alla fine fui l’unico di quel gruppo a partire. La cosa che in realtà mi ha spinto non è stata tanto l’idea di un “diritto ebraico” a uno Stato, ma il fatto che lì stavano affluendo migliaia di profughi scampati dai lager che avevano deciso di andare in Israele. L’idea che qualcuno che aveva subito in modo così atroce la dittatura nazista non potesse essere libero di andare a vivere nel paese che aveva scelto, ecco questa idea mi era assolutamente in