Gioele Dix: «Kaddish per un padre che non si è mai arreso»

di David Ottolenghi/ Gioele Dix

Vittorio Ottolenghi, avvocato e già Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane tra il 1978 e il 1983, tra i “padri” dell’Intesa
con lo Stato italiano, è mancato in aprile, pochi giorni dopo l’adorata moglie Roberta. Il figlio David li ricorda con amore: «Era una bella famiglia, la mia…»

Lo scorso 22 aprile alle 7 meno 10 del mattino è mancato mio padre, Vittorio Ottolenghi. La pendola antica in salotto, che lui amava tanto e che aveva smesso di funzionare all’improvviso in un tardo pomeriggio di gennaio, è ferma proprio sulle 7 meno 10. Un caso, ma fa una certa impressione. Soprattutto perché in quel tardo pomeriggio di gennaio mio padre non era a casa, ma in ospedale e stava per essere operato. Dalle conseguenze di quell’intervento, seppur tecnicamente riuscito, non si è mai più ripreso. Dapprima ha lottato come un leone, e noi con lui e per lui, poi ha ceduto le armi, esausto e stremato.
La resa definitiva si è consumata in venti giorni, a partire dalla sera in cui la sua adorata moglie, Roberta Milani, la mia mamma, se n’è andata senza fare rumore, com’era nel suo stile. Una vera sfortuna, o forse l’esatto contrario, chissà. Spesso – quando erano ancora in salute – li avevo colti a scherzare su chi fra loro sarebbe sopravvissuto e su come avrebbe fatto a cavarsela senza l’altra metà. Dopo quasi settant’anni di vita insieme si consideravano così, predestinati e indissolubili.
È stato davvero un duro colpo per me, che provo ora a rimettere insieme i pezzi, e combatto con una sorta di frustrazione per aver fallito la mia missione: volevo che continuassero a vivere e non ci sono riuscito. In Patrimonio di Philip Roth, un amico medico parla con franchezza al figlio angosciato per la salute del vecchio genitore. “Ricorda solo questo: non puoi impedire a tuo padre di morire, e forse non potrai neppure impedirgli di soffrire”. Probabilmente, dunque, il mio non è altro che un goffo, maldestro, prevedibile tentativo di non arrendermi. Di una cosa però sono certo: bene ho fatto a tenerli entrambi a casa. Si sono spenti fra le loro mura, nella loro stanza, con le foto dei genitori e dei fratelli sul comodino, e con tutti noi che li abbiamo amati a gironzolargli intorno senza posa, in agitata, quasi febbrile attesa che accadesse ciò che non volevamo accadesse. Su questo almeno non nutro rimpianti, perché l’ho sempre pensato: chi se ne sta andando non deve essere lasciato da solo. Se è possibile.
Per il resto, cerco di evitare parole e frasi di circostanza, trappole terribili in momenti come questi. Che cosa si può dire di adatto, di sensato, di confortante? Meglio lasciare spazio al dolore in silenzio, o quasi. Meglio affidarsi ai ricordi, coltivandoli con cura e amore. Saggio consiglio, estrapolato dalle parole – queste sì adatte sensate e confortanti – di rav Arbib, al quale sono profondamente grato per averle sapute distillare in due così complicate e ravvicinate occasioni.

L’avvocato Ottolenghi
Per tutti quelli che lo conoscevano, esclusi i parenti e gli amici stretti, mio padre è sempre stato l’avvocato Ottolenghi, o più semplicemente l’Avvocato. “Mi chiamano come l’Agnelli”, diceva divertito, non senza precisare che quell’altro usurpava il titolo essendo soltanto un comune laureato in legge. “Dottor Agnelli dovrebbero dirgli” aggiungeva con sarcasmo. Proprio lui che fin da ragazzo avrebbe voluto fare il medico, ma che per intricate e dolorose peripezie conseguenti all’esilio si ritrovò nel 1946 iscritto alla facoltà sbagliata. Eppure gli garbava la giurisprudenza, ci era tagliato, soprattutto per forma mentis, e ben presto capì che quella avrebbe potuto diventare la sua strada. Lo coinvolsero attivamente alcuni professori, Jaeger soprattutto, e Grassetti, con il quale fece un viaggio fino a Capo Nord all’inizio degli anni Cinquanta che entrò poi nella mitologia familiare. Per più di un decennio fu assistente alla Bocconi di diritto del lavoro, poi abbandonò per dedicarsi totalmente alla libera professione. E così il mancato chirurgo è diventato un grande avvocato, stimato e rispettato nel suo ambiente e fuori, considerato affidabile, competente e soprattutto corretto. Mica poco. Forse il suo segreto è stato quello di non aver mai perso fiducia nel “potere del diritto”, come lo definiva lui, capace di trovare un punto di equilibrio fra il disordine prodotto dagli uomini e l’etica comandata da Dio. Non dimenticherò mai la sua faccia beata durante uno shabbat al Tempio mentre con la punta del talled mandava un bacio alla Torah appena esposta. “Solo noi veneriamo così la Legge” mi sussurrò soddisfatto all’orecchio.

I ruoli nelle istituzioni ebraiche
Una passione quasi religiosa che ha senza dubbio influenzato il suo modo di essere vigile e attivo all’interno dell’ebraismo, mettendosi al servizio della Comunità prima e dell’Unione poi con la sua esperienza e il suo rigore professionale.
Il vero guaio – se così posso definirlo – è stata la sua totale assenza di vanità. Ha sistemato statuti, firmato convenzioni, redatto contratti, messo in regola bilanci senza mai farne pubblicità. E anche quando, dal 1978 al 1983, divenne Presidente dell’Unione, e successivamente membro della Commissione giuridica che avrebbe concluso la storica Intesa con lo Stato Italiano, puntò comunque all’essenziale, mantenendo il proprio profilo autorevole e riservato.
Era un uomo fatto così, amava le chiacchierate e i viaggi, sapeva ascoltare e consigliare le persone, ma non era un tipo cerimonioso e non gli piacevano affatto riflettori e messe in scena. Non a caso, nei miei primi anni di carriera teatrale chiedeva spesso allarmato a mia madre: “Ma secondo te nostro figlio da chi ha preso?”. Eppure mi ha sostenuto sempre con convinzione, difendendomi se necessario da rovesci e critiche. Come quando fronteggiò ogni sera, per mesi, l’incredulità di mia nonna che non si faceva una ragione della mia nuova identità. “Ma perché il David ora si fa chiamare Gioele Dix?” gli ripeteva al telefono. “Perché ha deciso di darsi un nome d’arte, mamma” le rispondeva lui.
Eroico e protettivo, come solo un vero padre sa esserlo. Per questo è sempre parso invincibile ai miei occhi, prima di bambino e poi di adulto.
Certo, dopo il recente doloroso epilogo, non posso evitare di pensare a ciò che mi disse una volta – eravamo a cena io e lui – a proposito del suo legame speciale con mia madre. Lei aveva sofferto in passato per una grave forma di depressione e ne era uscita grazie alle sue ritrovate energie, perché la momentanea fragilità non aveva piegato fino in fondo la donna forte, vitale, curiosa, appassionata che era. In quel difficile passaggio mio padre aveva saputo starle accanto senza giudicarla, senza opprimerla di aspettative, semplicemente offrendole assistenza e pazienza.
“Le hai dato tanto” gli dissi quella volta, con ammirazione.
E lui, sincero: “Io forse le ho dato tanto, ma lei mi ha dato tutto”.
Invincibile dunque, ma solo se accanto aveva lei.
Roberta e Vittorio. Era una bella famiglia, la mia.
Mentre provo a elaborare il lutto (dicono occorra farlo), annoto altri numeri, mia primordiale passione fin dai tempi delle tombole alle feste dei bimbi.
Il 22 aprile, papà. Il 2 aprile, la mamma. 22 diviso 2 fa 11. L’11 aprile (del 1954), il giorno del loro radioso matrimonio, nel nostro Tempio di via Guastalla. Un caso, ma fa una certa impressione.