Daniel Barenboim: «Che cosa mi dà speranza? Fare musica»

 

Controcorrente e vulcanico. È tra i più celebrati direttori d’’orchestra del mondo. Israeliano di origine russa, Barenboim è la star del podio che ha diretto l’’ultima Carmen alla Scala di Milano. La sua “West-Eastern Divan Orchestra” riunisce musicisti arabi e israeliani, gettando un ponte tra mondi incomunicanti

“Prima di avere un passaporto israeliano, ne avevo uno argentino; poi ne ho preso anche uno spagnolo. E nel 2007 sono diventato l’unico israeliano che può esibire anche un passaporto palestinese al confine israeliano con i Territori”. Questo, e molto altro, è Daniel Barenboim, pianista e direttore di orchestra, star indiscussa della scena musicale mondiale. Un personaggio dal carisma eccezionale, un Maestro, come ha dimostrato la sua recente direzione della Carmen di Georges Bizet alla Scala. Intervistare Barenboim è tutt’altro che semplice. Nonostante ciò, la sua musica e i suoi libri (l’ultimo, di Feltrinelli, è La musica sveglia il tempo, il suo sito: www.danielbarenboim.com), ci raccontano la forza della sua personalità, il coraggio di osare e la profonda umanità. Soprattutto, raccontano un’identità ricchissima, in cui Israele ha un ruolo di primo piano, nella vita personale come in quella professionale.

Daniel Barenboim nasce nel 1942 a Buenos Aires. Come egli stesso ci racconta dal suo sito Internet, in un testo scritto in occasione del 60° anniversario dello Stato di Israele, “i miei nonni paterni e materni erano ebrei russi che si erano rifugiati a Buenos Aires in seguito ai pogrom del 1904. La storia di quelli materni è invece davvero speciale. Quando arrivarono al porto di Buenos Aires (mio nonno aveva 16 anni, mia nonna 14), dopo un viaggio infinito, fu loro annunciato che solo le famiglie potevano sbarcare, perché il numero disponibile per tutti gli altri era esaurito. Mio nonno allora prese la mano di mia nonna e le disse ‘Sposiamoci!’. Una volta sulla terra ognuno andò per la sua strada, ma tre anni dopo si incontrarono per puro caso, si innamorarono e non si separarono più”. Questa nonna era una fervente sionista, tanto che nel 1929 andò in Palestina per sei mesi con le tre figlie (fra cui la madre di Daniel, allora diciassettenne), per vedere com’era la vita lì.

La famiglia del padre, invece, era totalmente assimilata. “La ‘Terra Promessa’ non aveva significato per loro – spiega – almeno fino a quando non scoprirono che io avevo un talento musicale. Improvvisamente infatti, divenne importante per i miei genitori che io, come futuro artista, crescessi come parte di una maggioranza, e non, invece, come una minoranza in qualche luogo della diaspora”. La famiglia Barenboim decide quindi di trasferirsi in Israele, iniziando così un lungo viaggio che li porta a fermarsi, per qualche tempo, in Austria.

“Un amico ebreo mi portò sul Bad Gastein davanti a una grande cascata, e mi disse che durante il nazismo gli ebrei vi venivano gettati dentro. Qui ho capito per la prima volta qual era il destino del popolo ebraico”. Finalmente, nel 1952, i Barenboim arrivano in Israele e Daniel deve imparare una nuova lingua con un alfabeto diverso. “Era tutto tranne che semplice, ma ero un bambino estroverso e riuscii ad adattarmi rapidamente. E fu l’inizio di una meravigliosa e intensa nuova vita”. In realtà, il tempo che il giovane Daniel passa in Israele non è moltissimo, impegnato com’è a fare tour di concerti in giro per l’Europa, nonostante David Ben Gurion dica ai suoi genitori che non diventerà mai famoso con il cognome Barenboim (che in yiddish significa albero di pero). “Lui mi consigliava di cambiarlo nella versione ebraica Agassi (agas significa pera, ndr), anche perché si poteva pensare che fossi italiano. Nessuno di noi, però era molto entusiasta di questa idea”. È durante questi continui viaggi per lavoro che il musicista si accorge dei profondi contrasti che esistono fra l’Europa, che si ricostruiva dopo la guerra, e Israele, a quell’epoca uno Stato profondamente socialista e idealista. “Era una fortuna che noi e lo Stato d’Israele fossimo giovani nello stesso momento. Nessuno aveva l’impressione di lavorare ‘per lo Stato’, perché non esisteva ancora.

Lo Stato si sviluppava davanti ai nostri occhi e si nutriva del nostro idealismo e del nostro impegno”. Nel 1966 incontra la violoncellista Jacqueline du Pré a Londra, con cui si sposa tre mesi più tardi. “Senza nessuna pressione da parte mia, Jacqueline decise di convertirsi all’ebraismo – ammette -. L’eventualità di avere bambini giocò un ruolo importante nella sua decisione, così come il fatto che molti musicisti erano ebrei. Ma la conversione non fu sempre un vantaggio per lei, per la sua carriera: si diceva infatti che aveva raggiunto ‘la mafia ebraica della musica’”. Il matrimonio viene celebrato nel giugno del 1967 a Gerusalemme. “Ben Gurion, che non capiva molto di musica, era presente al matrimonio – racconta Baremboim -. Ed era impressionato dal fatto che una ragazza inglese, non ebrea, si potesse identificare così fortemente con il suo Paese”.
Ma poche settimane prima del felice evento, scoppia la Guerra dei Sei Giorni: la coppia, di ritorno da un concerto a Beer-Sheva il 5 giugno, vede i primi carri armati muoversi. Nello stesso anno, Baremboim debutta come direttore d’orchestra alla New Philharmonic Orchestra di Londra. Da allora, è conteso dai più grandi ensemble di tutte le nazioni. Ma è sempre da quel fatidico 1967 che egli vede crescere il conflitto in Medio Oriente, e allargarsi sempre di più il divario fra israeliani e palestinesi. E, parallelamente, cresce in lui la convinzione che l’unica soluzione sia l’esistenza di due Stati. “Dagli anni ’60 non mi sono più sentito a mio agio in Israele – confessa -. Certamente è la mia casa, il Paese dove sono seppelliti i miei genitori. E ogni volta che in Israele c’era una guerra, io ero lì a suonare o dirigere: nel 1956, nel 1967, nel 1973. La musica era la mia lingua, la mia ‘arma’ segreta”.

Ma in lui matura la consapevolezza che, così come gli ebrei hanno diritto a uno Stato, anche i palestinesi devono averne uno. Una situazione, questa, che gli crea un’intensa sofferenza, e che lo porta ad azioni eclatanti, come dirigere la musica di Wagner in Israele, citare la Costituzione israeliana nella Knesset, o creare un asilo musicale a Berlino. Ma è, soprattutto, la profonda convinzione che il dialogo sia fondamentale per arrivare alla pace, che lo porta a fondare nel 1999, insieme al suo grande amico e scrittore palestinese Edward Said, la West-Eastern Divan Orchestra, composta da musicisti provenienti da Paesi del Medioriente (Israele, Siria, Libano, Egitto, Iran, Giordania, Palestina). Da allora l’orchestra ha portato in tutto il mondo il messaggio di pace per cui è stata creata: non da ultimo nei territori palestinesi, nel 2005, con un concerto a Ramallah.
“Faccio tutto ciò perché mi rende pazzo vedere quanta sofferenza noi ebrei causiamo ogni giorno,e quanto mettiamo in pericolo la futura esistenza di Israele. O noi e i palestinesi troviamo un modo per convivere, oppure ci uccideremo a vicenda. Che cosa mi dà speranza? Fare musica. Perché, davanti a una sinfonia di Beethoven, al Don Giovanni di Mozart o al Tristano e Isotta di Wagner tutti gli esseri umani sono uguali”.