“Voi sarete eroi e non andrete come pecorelle al macello”

di Fiona Diwan

Nessuno ci impasta più di terra e argilla
nessuno alita sulla nostra polvere
Nessuno. Lodato sii tu, Nessuno.
Per amor tuo vogliamo fiorire….
(Salmo – Paul Celan)

Parigi, 6 marzo 1970. Il grande poeta Paul Celan, sopravvissuto alla Shoah, scrive ad un’amica circa il suo desiderio di trasferirsi in Israele e le dice che avrebbe deciso di non farlo perché la sua “memoria distrutta sarebbe, nel caso dell’aliyà, un handicap. Per come sono diventato – scrive-, andare in Israele non farebbe che infastidire le persone che vivono là, con i miei problemi a cui, nella loro situazione di pericolo, non possono essere sensibili né capire”. Celan allude alla sua condizione di sopravvissuto, di scampato dai campi, una condizione inadatta, a suo avviso, alla realtà israeliana, tutta intrisa dell’epica eroica dei combattenti e dei pionieri, quindi ben poco propensa all’ascolto delle vittime e del cuore di tenebra di chi è uscito dai lager. Il poeta Celan non ha torto. Ha capito che per costruire lo Stato di Israele la generazione dei pionieri deve “distruggere” la diaspora, rinnegarla (non a caso venne coniata la sprezzante formula Shlilat haGolà, rifiuto della diaspora); per costruire l’Ebreo Nuovo e Forte i chalutzim devono disprezzare l’Ebreo Debole e Diasporico. E difatti, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino agli anni Sessanta, l’immaginario collettivo israeliano contrappone la forza virile del sionismo (dell’Yishuv, dell’Haganà, del Palmach e poi di Tzahal) all’impotenza, alla passività, alla pusillanime debolezza degli ebrei scampati alla Shoah, quegli ebrei “che non seppero ribellarsi e andarono a morire come pecore al macello”, secondo un’espressione caduta oggi fortunatamente in disuso ma che dominò per decenni il linguaggio e il pensiero degli israeliani.

A raccontare quella che è stata la complessa vicenda dei rapporti tra la nascita dello Stato di Israele e la Shoah arriva oggi uno splendido saggio, Israele, un nome eterno. Lo Stato di Israele, il sionismo e lo sterminio degli ebrei 1933-2007 (Utet, pp. 203, euro 22,00), di Georges Bensoussan, professore di Storia alla Sorbona IV e direttore della celebre Revue d’Histoire de la Shoah. Il libro indaga i legami per nulla ovvii tra l’edificazione dello Stato d’Israele e lo sterminio di massa degli ebrei d’Europa, sottolineando quanto in verità sia falso il mito che stabilisce l’origine dello Stato di Israele come frutto della catastrofe, risposta alla tragedia della Shoah, una specie di risarcimento per le sei milioni di vittime. Nulla di più fuorviante, ci dice Bensoussan. Non esiste un nesso di causalità tra i due grandi eventi, l’Yishuv con i suoi giornali, le sue 500 mila anime, la sua società civile già strutturata, istituzioni come l’Histadrut – il sindacato-, e la Kupat Holim – l’assistenza sanitaria, risalgono agli anni Venti del secolo scorso ed esistevano ben prima dello scoppio della guerra. Si rassegnino coloro, ossia gli arabi, che sostengono che Israele non è che il risarcimento della tragedia dei campi di concentramento e quindi un problema della cattiva coscienza degli europei che per sdebitarsi delle atrocità commesse regalarono agli ebrei un pezzo di terra araba. Gli archivi di Londra e Washington, ci dicono gli storici, non lasciano trasparire il benchè minimo senso di colpa degli Occidentali nei confronti degli ebrei tra il 1945 e il 1948. Quindi Israele non è né un indennizzo morale né tantomeno la redenzione dalla Shoah. No, dice Bensoussan: una rigorosa analisi delle interconnessioni tra i due capitoli di storia ci porta a capire come in verità l’insediamento ebraico preceda di sessant’anni le camere a gas e che lo Stato degli ebrei è già una realtà effettiva che sarà legittimata e siglata nel 1948 non grazie alla Shoà ma nonostante e malgrado essa. Un libro questo che mira quindi a confutare anche la tesi araba più comunemente condivisa che fa del genocidio l’autentica matrice dello Stato ebraico. Una tesi a ben guardare pericolosa e negazionista perché elimina il legame tra il popolo ebraico, la terra e la lingua che ne è scaturita. Bensoussan scandaglia tutti gli aspetti della questione. Ed esordisce dicendo che, sebbene sembri stupefacente a dirsi, i primi decenni della storia di Israele sono quanto di più lontano ci sia dall’accogliere la memoria della Shoà. Perché? Perché l’accoglienza distaccata se non addirittura gelida che fu accordata ai sopravvissuti permise ai giovani israeliani di minimizzare il proprio senso di colpa e testimonia soprattutto lo smacco del movimento sionista. “Voi ballavate lahora mentre noi bruciavamo nei crematori, Israele non ci è venuto a cercare e noi ci siamo sentiti abbandonati”, afferma uno dei pochi scampati al ghetto di Varsavia, Antek Zuckerman. E in effetti tra il settembre del 1939 e il 1945 nessun emissario dell’Yishuv fu mandato in Polonia. Abbandonando gli ebrei al proprio destino l’Yishuv si dissociò dalla storia della diaspora e in definitiva fece poco o nulla per il giudaismo europeo che stava per essere annientato. Ecco quindi che si fa strada una maniera sionista di guardare alla catastrofe. La tentazione del canaanismo, come lo chiama Bensoussan, sarà sempre forte sia nell’Yishuv che, più tardi, nello Stato d’Israele: canaanismo inteso come tendenza a contrapporre l’israelianità (l’eretzisraeliut) alla diasporicità, il rompere i ponti con l’esilio, con un mondo, la Galut, sinonimo di sofferenza da contrapporre alla moderna esperienza israeliana. Una tentazione a cui non sfuggono nemmeno i primi dirigenti dello nuovo Stato. Ad esempio, David Ben Gurion: tutti i suoi biografi concordano nel notare la manipolazione retorica che lo statista fece della tragedia dei campi ai fini dell’edificaziosne dello Stato. Ben Gurion respingeva il principio dell’esilio e probabilmente provava vergogna e disprezzo per l’eredità diasporica. Il capo dell’Yishuv e futuro primo ministro mantenne sempre come priorità la proclamazione dello Stato e non la salvezza degli ebrei d’Europa. Ad esempio restò sempre molto prudente con Londra, potenza mandataria da tenere buona, capendo che portare alla luce il dramma dei lager e chiedere di  accogliere gli ebrei in fuga, si sarebbe potuto ritorcere contro il movimento sionista. “Il clima sprezzante che nel primo decennio di Israele circonda le vittime ritenute passive, addirittura colpevoli di essere sopravvissute – scrive Bensoussan – pone il superstite in una posizione insostenibile: da morto avrebbe avuto torto, da vivo è sospetto”. Non a caso gli ospedali psichiatrici del giovane Stato di Israele si popolano a poco a poco di scampati, orfani del mondo inghiottiti dalla tristezza, gente che vivacchia giorno per giorno tra alcol e solitudine. “Dopo la guerra, i sopravvissuti si riempirono di silenzio, impararono a vivere senza ricordi così come si impara a vivere quando si subisce un’amputazione. Quando videro che non proferivo una sillaba, i sabra furono certi che fossi muto e in un certo senso lo ero davvero”, scrive lo scrittore Aharon Appelfeld. Un silenzio che giunti in Israele, i superstiti vivranno come un nuovo esilio. Si produce così un curioso paradosso: una situazione israeliana in cui la memoria collettiva della Shoah occupa un posto centrale nella costruzione dell’identità nazionale mentre, di contro, la memoria degli scampati resta muta e lontana. Non li si vuole ascoltare ma si parla sempre di loro. La collettività israeliana ha interesse alla rimozione perché il ricordo di quell’inferno non avveleni la nuova pagina di storia intrisa di eroismo che si vuole scrivere, fa notare Bensoussan. Il dolore sigilla i superstiti in una prigione interiore e l’arrivo in Israele è segnato da un’accoglienza priva di autentica empatia. Gli scampati giungono da un altro pianeta, il mondo della Galut, piombati in una società poco propensa ad ascoltare il loro passato perché la loro storia si scontrava frontalmente con il mito dell’Ebreo Nuovo. Bisognerà arrivare al processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann, nel 1961: da qui lo spartiacque che modificherà il modo di percepire i sopravvissuti, i quali verranno finalmente ascoltati e capiti, ciascuno con la singolarità della propria storia e non più massa indistinta, imbarazzanti fantasmi, presenze dai ricordi troppo ossessivi e ingombranti a cui risulta insopportabile dare ascolto. Israele dovrà aspettare le voci dei testimoni di quel processo per provare l’empatia fino allora negata ai tormenti degli scampati. E dire finalmente, con Paul Celan, “animo ingarbugliato, io conosco/ brulicanti come pesciolini/ i tuoi coltelli”.