Perché l’otto marzo cita la supremazia bianca e respinge gli ebrei?

di Emanuele Calò

I cortei delle femministe per l’otto marzo hanno esplicitamente pretermesso e allontanato chi manifestava contro il peggior caso di stupro collettivo di questo secolo, corredato da roghi, mutilazioni, vilipendi di cadaveri e così via. Di tutto ciò, nulla hanno visto, se non la reazione e la difesa della propria esistenza ad opera del popolo d’Israele, formato da eterosessuali e da omosessuali, da uomini e donne, da religiosi e da atei, da ebrei e da arabi, da bianchi e da neri più ogni sfumatura di schleiniano armocromatismo.

Vediamo i precedenti. Forse potremmo rammentare che, nel 2021, Lori Lightfoot, Sindaca di Chicago, di pelle scura e lesbica, decise che non avrebbe concesso interviste singole ai giornalisti bianchi. Quali che fossero le sue motivazioni, era una decisione razzista, assunta nel nome dell’antirazzismo. Forse s’inquadrava, tale poco felice decisione, nel quadro della lotta al suprematismo bianco. Anche se voler combattere il razzismo col razzismo somiglia al principio attivo dei vaccini oppure a una qualche trovata di un guitto infelice, i suoi effetti sono devastanti. Sul sito delle femministe si legge: “Per questo essere in piazza con lə palestinesə e per la P4l3st1n4 libera è parte di un percorso che faccia in modo che termini come decolonizzazione e intersezionalità non siano parole vuote, ma pratiche politiche attraverso cui mettere in discussione la riproduzione della bianchezza e costruire lotte che siano di tuttə le persone oppresse a partire da un posizionamento transfemminista per cui non possiamo essere liberə finché non lo saranno tuttə. La nostra presa di posizione femminista e transfemminista è contro il genocidio compiuto dallo Stato di Israele, perché vediamo una continuità tra genocidio e femminicidi, lesbicidi e transicidi. Israele è un progetto coloniale e genocida dalla sua concezione, i movimenti anticoloniali in tutto il mondo lo sanno e lo dicono; il sistema in cui viviamo si regge su guerra, colonialismo e supremazia bianca. Essere contro le politiche di guerra che sostengono il genocidio significa opporsi al militarismo sempre più presente nella società. Le politiche di guerra, infatti, non solo vengono sostenute da manovre economiche che producono disuguaglianza, ma rafforzano discorsi nazionalisti, razzisti, islamofobi e patriarcali che si nutrono dell’irrigidimento dei ruoli di genere e nel rafforzamento di politiche conservatrici per riprodurre la Nazione e la sua finzione“. È così?

Anzitutto, la guerra è l’oggetto sociale di Hamas, non certo di Israele. Inoltre, sostenere che Israele sia bianca è un’asserzione che reca grave offesa agli ebrei di pelle scura che impreziosiscono Eretz Israel. Sennonché, il richiamo alla supremazia bianca, riporta alla teoria woke e conduce, difilato, all’antisionismo (vedi Emanuele Calò, La questione ebraica nella società postmoderna, Itinerari fra storia e microstoria, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2023, p 42). Sennonché, visto che la maggior parte delle femministe italiane sono bianche, potremmo asserire che le loro organizzazioni riflettano la supremazia bianca? Certamente no, anzi, esse si battono per una nobile causa, la quale difficilmente potrà essere rafforzata dalla loro sfida primaria alla logica. Tant’è che la donna il cui pensiero è alla base del femminismo, Simone de Beauvoir, si guardava bene dalla volgarità binaria che, come un grottesco gioco dell’Oca, ci rimanda al razzismo e alla discriminazione;  quando scrive che “Rifiutare le nozioni di eterno femminile, di anima nera, di carattere ebraico, non significa negare che oggi ci siano ebrei, neri e donne” (Le deuxième sexe, I, Folio Essais, Gallimard, Paris, 1976, p.13) mette insieme donne, neri ed ebrei quali vittime, anziché contrapporre in modo inspiegabile gli uni contro gli altri, rifugiandosi nell’utopia intersezionale di  Kimberlé Crenshaw.

Simone De Beauvoir scriveva: “Ho seguito [. . .] con passione la lotta condotta dagli ebrei per potersi stabilire su una terra che sia loro [. . .] e fu per me una vittoria quasi personale quando finalmente, nel 1948, lo Stato di Israele fu riconosciuto dalle Nazioni Unite. [. . .] Quindi mi sento molto profondamente legata all’esistenza di Israele. (FG 1979: 524, corsivo mio) -Dopo la guerra del Vietnam, l’evento politico che più mi ha colpito negli ultimi anni è stata la Guerra dei Sei Giorni. (TCF 403) Condivide il comune timore ebraico di una possibile distruzione: «L’idea che Israele possa non sopravvivere come Stato, l’idea dell’annientamento dello Stato di Israele mi alletta in modo insopportabile» (FG 1979: 524).  La spaventa questo consenso di odio e di ostilità che riunisce nella stessa coalizione eterogenea l’URSS, i paesi dell’Est, le dittature militari e i paesi arabi progressisti e feudali. Questa passione ha come fonte profonda la compassione per questo “ebreo delle nazioni” che Israele incarna, ai suoi occhi, perché i suoi nemici lo minacciano, ancora una volta, e meno di una generazione dopo la Shoah, di distruzione” (Denis Charbit, Les raisons d’une fidélité: Simone de Beauvoir, Israel et les Juifs, Simone de Beauvoir Studies, vol. 17, 2000, p. 51 ss.).

Poiché le femministe auspicano, giustamente, che non ve ne sia una di meno, sarebbe a dir poco tragico che quella donna “di meno” possa essere proprio la loro fondatrice, Simone de Beauvoir.

 

Di quale cultura parliamo? Layal Alekhtiar, una giornalista libanese residente in Dubai, è ricercata dalle corti militari del suo paese per aver intervistato un israeliano.  Ai cittadini libanesi è vietato dalla legge contattare gli israeliani e le violazioni sono punibili dalla legge: i due Stati sono ancora formalmente in guerra. Alekhtiar ha definito il mandato “persecuzione politica sotto forma di oppressione giudiziaria”. Il mandato arriva, ha precisato, dopo che individui “vicini a Hezbollah”, i miliziani filo-iraniani del Libano, hanno chiesto ai magistrati di aprire un’indagine contro di lei. “La cultura della morte ha distrutto metà del Libano e altri Paesi arabi, io ho scelto la cultura della vita”, ha reagito.

Sarebbe bene, soggiungiamo, che si riflettesse, anche in Europa e in Italia, sulle cause che impediscono di capire se e quando si finisce, involontariamente, per appoggiare una cultura di morte. Noi, un’idea l’avremmo: è l’approdo inevitabile di una spirale di culture (religiose, indi atee materialiste e, poi, etniche) che col pre – testo, nell’ordine, della spiritualità, della lotta di classe e, infine, dell’oppressione, celano la vigliacca weltanschauung del pauperismo: ecco dove porta. Nella logica pauperistica, si compiono delle operazioni, contrassegnate da falsità:

a) si individua il ‘povero’ senza indicarne il criterio

b) il povero è legibus soluti: può anche fare a pezzi il ‘ricco’ e verrà invariabilmente giustificato

c) nel caso del 7 ottobre, il ‘ricco’ è stato identificato nei kibbutznik, membri di una società comunista (si dà quel che si può e si riceve ciò di cui si ha bisogno) nondimeno ritenuti ‘opulenti’ in quanto ebrei. Senza falsificazione, l’antisemitismo non è esperibile. Basterebbe dare un’occhiata ai libri di testo.