L’antisemitismo è un’ideologia di rivalsa. E Israele, come “ebreo collettivo”, è oggi il paria del mondo

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] È molto difficile, nel tempo che ci tocca in sorte di vivere, il continuare a parlare di certe cose. Ci si sente assediati. Tali poiché non solo incompresi bensì, anche e soprattutto, fraintesi. Un destino insopportabile, a ben pensarci. Ma per nulla inedito.

Una di queste condizioni, va da sé, è il giudizio da formulare sul conflitto israelo-palestinese, o come ad oggi lo si preferisca definire. Poiché certe parole sono diventate impronunciabili. Si pensi al termine “sionista”: sempre più spesso, ancora prima dello stesso pogrom antisemita del 7 ottobre scorso, voluto e realizzato con scientifico calcolo dagli islamisti di Hamas, l’espressione medesima già si confondeva – in calcolata ambiguità da parte dei suoi detrattori – con la parola “nazista”.

Il “nazi-sionismo”, ossia una creatura fittizia, una sorta di Golem propagandistico tanto gigantesco quanto, in sé, concretamente fragile, è storicamente un prodotto della propaganda sovietica che, dalla seconda metà degli anni Sessanta, iniziò a battere la grancassa dell’avversione verso Israele. Il tutto in un nuovo modo: quello per cui – temendo il disallineamento, rispetto ai suoi interessi di superpotenza mondiale, di una parte dei paesi arabi, a partire dall’Egitto (come poi puntualmente avvenne, con la scelta di Sadat per l’Occidente, dopo il 1973) – si dovesse rispondere a una tale prospettiva rinforzando i diffusi pregiudizi ideologici.

 

Da ciò, quindi, la rigenerazione di uno spettro: quello che allora, così come oggi, si aggirerebbe nel mondo, ossia la volontà “giudaica” (quindi, ai nostri tempi, “sionista”) di dominarlo. Se prima era l’ebreo ad essere il paria del mondo, ora lo diventa Israele, tale in quanto sorta di ebreo collettivo.

 

In sé, un tema di tale genere non è una novità. Lo sappiamo bene. Poiché nasce dalla reazione contro-rivoluzionaria del 1789. Quando aristocratici, nobili e clero si scagliano contro la plebe che, passo dopo passo, si stava sostituendo ad essi. Si rafforza quindi durante tutto l’Ottocento, pervenendo, puntualmente trasmutato e in ciò adattato, all’oggi, ai nostri tempi. In altre parole, del tutto spicciole, la giaculatoria di prassi così recita: “se sto male, una colpa sussiste ed è quella per cui altri beneficiano della mia marginalità sociale e della mia condizione personale, ossia coloro che vengono definiti con il nome di ‘ebrei’, quei reietti che, nel loro continuare ad essere barbari, rozzi, prevaricatori, tuttavia ci rubano tutto quello che ci appartiene, ossia le nostre (magre) ricchezze, le nostre (poche) risorse, la nostra terra, la nostra stessa vita, ovvero la speranza che essa possa avere un futuro accettabile”.

 

L’antisemitismo, da sempre, infatti, è un scimmiottamento della critica dello stato di cose esistenti. È la pantomima del socialismo, del liberalismo, dello stesso “anti-capitalismo”. Sostituisce ad essi, alla loro analisi critica, un’avversione tanto primordiale quanto immediatamente condivisibile. Non si odia mai con la ragione bensì con l’emozione. Dopo la rivoluzione industriale, che attraversa l’età che dà origine a ciò che conosciamo ad oggi con il nome di “contemporaneità”, e nella quale viviamo, tutto ciò è divenuto soprattutto un’ideologia reazionaria (qualcosa del tipo: “torniamo al passato! In quel tempo si stava meglio, anche perché gli ebrei erano isolati e neutralizzati”), atteggiamento che copre soprattutto il bisogno, per molti, di consolarsi della loro condizione di perenne subordinazione, in ciò trovandone quindi un capro espiatorio.

 

Ha funzionato a destra (tra coloro che hanno perso i propri privilegi nel corso del tempo, oppure cercano spasmodicamente di preservarli, a danno comunque del resto della collettività) ma anche a sinistra (nelle masse che sono state proiettate sulla scena pubblica, quella della politica, senza sapere in alcun modo collocarsi; da ciò – infatti – il bisogno di trovare un qualche colpevole rispetto alla loro persistente condizione di subalternità).

Detto questo, il suo perpetuarsi ci impone comunque alcuni interrogativi di fondo. In quanto l’antisemitismo non è solo patologia del tempo che si vive (ossia, come credono gli ingenui, una specie di deviazione dell’intelligenza, altrimenti ovviabile con l’“educazione”), bensì potente e ineliminabile ideologia di rivalsa. Che è tale in quanto viene vissuto e realizzato come risarcimento dinanzi all’impossibilità, per parte di sé stessi, di cambiare il mondo con le proprie medesime forze, così come in coalizione con gli altri. In fondo, quando ci si riferisce all’antisemitismo, ci si rimanda al senso di impotenza che molti vivono rispetto alla loro (presunta o reale) miseria del proprio tempo.

 

Non si odiano gli ebrei come esseri umani, bensì l’immagine stereotipata dell’ebreo che continua a essere diffusa attraverso i mezzi di informazione e gli strumenti di persuasione, quelli rivolti al condizionamento della pubblica opinione. Proprio a partire anche da ciò, si dice di amare qualcuno (nel nostro caso, i palestinesi) per nascondere il fatto che soprattutto si odia qualcun altro (gli “ebrei” come usurpatori e beneficiari di uno Stato abusivo, ossia Israele). Questo ultimo elemento è il nocciolo dell’attuale antisionismo. Non vale per tutti ma, senz’altro, ha una grandissima rilevanza nel nuovo pregiudizio antisemitico. Tema delicato, quest’ultimo. Per non fare di tante erbe, tra di loro altrimenti diverse, un unico fascio. Se Israele non raccoglie tutti gli ebrei della Diaspora, e se gli israeliani (ovvero le loro classi dirigenti) debbano essere chiamati in causa, quando ciò necessiti, non in quanto ebrei bensì come cittadini responsabili di uno Stato sovrano, rimane il fatto che invece per l’opinione mondiale, tutto si equivalga. In una specie di voluta e calcolata confusione di ruoli come, soprattutto, di responsabilità.

 

È proprio in un tale genere di disordine mentale, cognitivo e intellettuale, prima ancora che politico e civile, che proliferano le peggiori devianze. Destinate, con la guerra in corso tra Israele e Hamas, a trovare – purtroppo – nuovi e dolorosi riscontri. Siamo solo all’inizio, tanto per capirci.